lunedì 27 febbraio 2012

Comune aperto

9. "Grazie del cortese invito".

" Signore e signori, se siete pronti cominciamo la visita alle sale del Palazzo Municipale. Quelle sale e soprattutto quelle stanze che di solito restano chiuse al pubblico perche' ospitano gli uffici del Sindaco: la Segreteria e il Gabinetto del Sindaco. Se mi seguite e mi state vicino vi assicuro che la visita durera' non piu' di mezz'ora. In modo da lasciare lo spazio e il tempo agli altri gruppi."
La signora che fa da guida e' gentile ma spiccia. E' al suo terzo gruppo di 30 persone che visitano questa domenica il Palazzo del Comune. Ne avra', con i suoi colleghi fino alle 13. Ritardatari esclusi. Tra una cosa e l'altra alla fine ci saranno circa 800 persone che si sono messe in fila per la giornata "Comune aperto". Pioviggina e nessuno sta volentieri in coda fuori nell'umido autunno della citta'. Quelli in attesa sono stati sistemati lungo la scala coperta e nella prima sala di accesso agli uffici.
"Lo scalone di marmo bianco che avete appena salito e' stato edificato alla meta' del 400 dall'architetto Benvenuti. Quando la famiglia Este decise di risistemare il proprio Palazzo e la propria residenza, abbattendo vecchie strutture e collegando fra loro diversi fabbricati esistenti, fino a comprendere tutto il Castello che all'epoca si chiamava "Castel nuovo". Siamo infatti in quello che un tempo era il palazzo Ducale della citta'. E piu' precisamente nelle sale di rappresentanza, dove i Duchi ricevevano gli ambasciatori e gli oratori (si chiamavano cosi') delle altre signorie italiane e degli stati stranieri che inviavano qui loro rappresentanti, come il re di Francia, ad esempio.
Come avete visto, lo scalone e' coperto da una volta e addossato alla parete est del Palazzo, come si usava allora. E' diviso in due rampe e un pianerottolo centrale sormontato da una cupola. Sui capitelli e i basamenti delle colonne in marmo bianco potete vedere scolpite le imprese dei duchi: il diamante, che era il segno di Ercole e la granata svampante. Per vostra documentazione sappiate che uno studioso spagnolo ritiene che la parte bassa dello scalone rappresenti la terra con le sue fatiche (o l'inferno), il pianerottolo con la cupola il cielo (o il purgatorio), la seconda rampa invece conduce all'iperuranio, dove viveva la corte.
Per quello stesso scalone, il 2 febbraio del 1502 saliva, all'eta' di 23 anni, Lucrezia Borgia, figlia del Papa Alessandro VI e sorella del Valentino. Dopo un mese di viaggio da Roma giungeva in citta' per sposare in terze nozze Alfonso, figlio del Duca Ercole. Lucrezia visse nella nostra citta' fino alla morte per parto nel 1519. Ora e' sepolta nel convento del Corpus Domini (di cui raccomando la visita), assieme ad altri personaggi di casa Este."
Il gruppo comincia a muoversi sulla sinistra, andando dietro alla guida. Ai volumi alti e vuoti del primo salone fa seguito la sala del Consiglio comunale, arredata in stile anni 50, con banconi di legno, linoleum al pavimento, moquette rossa, una scalinata con seggiole verdi in finta pelle per il pubblico e una scultura di ceramica con lo stemma del Comune sopra i banchi della Giunta.
"Questa e' la sala del Consiglio comunale. Qui vengono votate le delibere piu' importanti che riguardano la citta'. Sui banchi davanti a voi (le due file piu' basse) siedono Sindaco e Assessori. Nella fila piu' in alto il Presidente del Consiglio e i suoi collaboratori. Sulle poltrone e i banchi alle pareti i Consiglieri Comunali nel numero di 40. La sala, che non ha particolare pregio architettonico, divide in due sezioni orizzontali la navata di quella che un tempo era la cappella ducale (cioè la chiesa di famiglia) e che ora e' una sala pubblica per spettacoli, con accesso da Piazza Municipale, che allora era il cortile interno del Palazzo ducale.
Per questa porta, invece, se mi seguite, passiamo in una sala, detta sala degli arazzi, di particolare importanza perche' arredata con due magnifici arazzi del 500, come potete vedere, e con un bellissimo armadio del 400. Il tavolo di marmo dipinto, raffigurante la mappa della citta' e del suo territorio limitrofo, e' invece dell'800, realizzato da artigiani locali. In questa sala per molti anni si tenevano le riunioni di Giunta. Ora e' adibita ai matrimoni. Chi si sposa civilmente puo' contare su questa cornice di grande prestigio. Dalle finestre potete notare i resti del giardino del Palazzo. Questo spazio che oggi chiamiamo "Giardino delle Duchesse" e' stato riacquistato dal nostro Comune che lo rendera' nuovamente agibile dopo molti decenni di chiusura e abbandono. La sala successiva e' invece adibita a riunioni di lavoro ed e' arredata in modo completamente moderno, come vedete. Di qui torniamo nel salone grande di ricevimento di cui potete notare il recente restauro degli stemmi e degli affreschi ornamentali nella parte alta delle pareti. Alle spalle del tavolo dei commessi vedete che vi e' una finestra, ultima traccia del vecchio cortile interno. Ora attraversiamo questo corridoio, probabilmente di origine piu' tarda, in cui sono esposti alcuni ritratti a olio, di pregevole fattura locale, di vecchi Confalonieri e Sindaci del passato. Anche in questa sala di passaggio, costruita nel 900, che oggi costituisce la sala "dell'Albo pretorio", dove cioe' vengono esposti gli atti ufficiali del Comune che i cittadini possono consultare, potete vedere le tracce di una antica bifora che ci fa capire che il palazzo anticamente finiva a questa altezza. Non vi stupisca l'alternanza degli stili e delle epoche, perche' in questo luogo da circa 800 anni, ininterrottamente, si esercita il governo della citta', in tutte le sue forme: comune, signoria, legazione pontificia, poi ancora Comune: con i confalonieri del popolo prima, i sindaci poi, i podesta' della citta' nel ventennio fascista e poi ancora i sindaci. Fino ai nostri giorni. La sala che visitiamo adesso, che e' l'ufficio del Vice Sindaco, come potete vedere e' in perfetto e intatto stile ventennio: legno alle pareti, mobili disegnati appositamente per l'ambiente e incassati nella boiserie. I quadri sono invece posteriori."
La guida non perde colpi. Sa che non puo' attardarsi senza creare problemi agli altri gruppi. Espone le informazioni essenziali, come era stato convenuto con i colleghi e man mano che vede avanzare nella visita il gruppo che precede muove i suoi.
"Da queste finestre potete vedere il Castello estense. Dapprima fortezza della citta' sul lato Nord, da dove potevano arrivare gli attacchi dei veneziani, poi trasformato in residenza, alla fine del '400 dopo essere stato ingentilito dall'architetto Bartolino da Novara, con quei fregi marmorei che potete vedere attorno alle torri e i balconcini di marmo del secondo piano. Anche le torri sono state alzate per dare piu' snellezza all'insieme. Tra il Palazzo dove siamo noi e il Castello corre la cosiddetta Via Coperta, una costruzione che al piano inferiore aveva funzione di corridoio coperto di passaggio tra il castello e il palazzo, mentre al piano nobile, in corrispondenza del balcone di marmo che vedete, avevano sede nientemeno che gli appartamenti del Duca Alfonso primo, il vincitore della battaglia della Polesella. Alfonso era noto per il suo interesse per la fabbricazione dei Cannoni (tanto che nel famoso ritratto di Tiziano Alfonso e' dipinto con un braccio appoggiato a un cannone) e per la sua bizzarria. Narrano i cronisti dell'epoca, infatti, che Alfonso fu sorpreso una notte, dai suoi cittadini, mentre se ne andava camminando per la citta' completamente nudo. Ma allora, evidentemente, erano cose permesse, almeno ai duchi..."
La gente sorride. Qualcuno commenta a mezza voce. La signora riprende.
"Alfonso, il marito di Lucrezia e' altrimenti noto per aver dato vita ad una delle prime collezioni d'arte del Rinascimento. I famosi "camerini di alabastro" che contenevano i marmi di soggetto neoclassico scolpiti a bassorilievi dai Lombardo e i camerini con le opere di Tiziano, Bellini e Dosso Dossi. I camerini del Duca stavano appunto al secondo piano della via coperta. Nell'area del palazzo prospicente la piazza. Lucrezia, con la sua corte, abitava invece nella torre marchesana, che sembra essere quella di fronte a voi, che adesso chiamiamo torre dell'orologio. Vi chiederete come mai Alfonso, con tanto spazio, abitasse proprio in questo luogo di passaggio. Ebbene, come vi ho detto, era un tipo bizzarro che preferiva stare vicino al suo popolo. Sotto le sue finestre, infatti, si teneva il mercato cittadino."
Ancora qualche commento dei visitatori. La guida ne approfitta per lasciare l'ufficio e avviarsi verso uno dei punti piu' importanti del percorso e vera strozzatura della visita guidata.
"Ora dovrete avere un po' di pazienza. Ma vedrete che ne valeva la pena. Nel prossimo ambiente si puo' entrare solo a gruppi di massimo 6 persone per volta. Conviene allora che ci dividiamo un momento e poi ci ritroviamo qui, prima di iniziare l'ultima parte della visita. Io vado avanti e vi aspetto, a turno, nello "Stanzino delle duchesse". I primi 6 possono seguirmi."
Il gruppo si divide e i primi 6 visitatori entrano con precauzione nello "Stanzino delle duchesse". La guida riprende.
" Il nome stanzino delle duchesse e' ovviamente recente. Si tratta con ogni probabilita' di un vestibolo o di un piccolo boudoir, o di una saletta di lettura. Perche', sapete, scaldarsi nei grandi saloni era un problema serio e difficile da risolvere, perché i camini fanno caldo solo davanti. Mentre qui bastava un bracere per tenersi al caldo nei freddi e umidi inverni locali."
I visitatori si guardano intorno e commentano ammirati.
" Come vedete si tratta di un piccolo locale 3 metri per 2.50, con pareti di legno interamente dipinte e stuccate nella meta' del 500 da artisti della bottega del Bastianino. I riquadri pittorici sono delimitati da intarsi di finta madreperla, raffigurazioni di fauna locale (pesci e uccelli) e da quelle graziose statuette lignee raffiguranti dei putti. Il soffitto con la rappresentazione del carro del sole e' forse piu' tardo, mentre il pavimento in cotto e' quello originale, dell'epoca. Alle pareti potete ammirare un esempio di pittura ornamentale di corte che, come vedete, si ispira alle grottesche romane, cioe' alle prime scoperte di affreschi antichi che nella Roma del rinascimento si andavano facendo. Ai primi scavatori della "domus aurea" o di qualche villa, quegli ambienti sembravano grotte in cui scendevano e da li', appunto, il nome di grottesche per lo stile ornamentale antico. Quello che si vede anche a Pompei, per intenderci. Nel nostro caso, al contrario di Pompei, il fondo dei dipinti è in foglia d'oro, come potete vedere." Un "ohhh" ammirato di chi avvicina la testa. Il ricordo di Pompei li rasserena, in tanta girandola di date e di stili. La signora li prega di lasciare spazio ai prossimi 6 e di aspettarla nell'atrio. Alla fine la visita riprende.
" Qui entriamo nella serie di uffici del Sindaco che si affacciano sul Corso, di fronte alla Sede arcivescovile. Qui i due poteri da sempre presenti in citta', quello laico e civico e quello religioso, si guardano e si confrontano: vedete dalle finestre le insegne dei Papi, ma loro dalle loro finestre vedono una lapide messa in ricordo del risorgimento, incastonata nel muro del Palazzo municipale, che dice: "la citta', finalmente liberata dal giogo della Chiesa... ecc. ecc."
Alcune persone sorridono, altre commentano che il confronto non e' ancora finito. La guida prosegue il suo discorso.
"Questa stanza le cui pareti sono ricoperte di damasco e' la sala della Giunta o "sala tonda" per via di quell'ampio tavolo rotondo di vetro, ovviamente molto recente. In alto potete vedere affrescati gli stemmi delle principali famiglie storiche della citta', tra cui, come vedete i Bombonati, gli Ariosto e i Garofalo, la famiglia del grande pittore cinquecentesco. I quadri invece, sono olii del pittore ottocentesco Pitto', vedutista, che tratta soggetti veneziani e del suo allievo che invece rappresenta scorci cittadini dell'epoca tra cui si distingue per interesse e qualita' della fattura quella raffigurazione della "Fortezza pontificia", poi divenuta simbolo della occupazione militare austriaca della citta' e rasa al suolo dai nostri concittadini subito dopo la partenza degli austriaci. In quella fortezza furono giustiziati i martiri risorgimentali Succi, Malagutti e Parmeggiani. Proseguiamo verso la stanza successiva."
La signora si muove e fa entrare il gruppo di una trentina di visitatori nel mio ufficio, ripulito di tutte le carte e imbellito con un paio di mazzi di fiori per l'occasione. Io li sto aspettando in piedi dietro il tavolo, accanto alle finestre che danno sul Corso.
"Eccoci finalmente nell'ufficio del Sindaco. Molti di voi si saranno chiesti in che luogo lavora il nostro "primo cittadino" ed eccoci qui. Questo e' il suo ufficio e infatti, come vedete, c'e' proprio anche il sindaco che ci sta aspettando e che ringraziamo per aver consentito questa visita."
Io sorrido, dico che e' un piacere per me e che Il Comune e' la casa di tutti cittadini. Al quarto gruppo che ricevo non mi viene niente di piu' intelligente e originale. Ma so che questa frase fa piacere sentirsela dire. Alcuni mi sorridono perche' mi conoscono di vista. La gran parte sono turisti e mi guardano con un misto di curiosita' e perplessita', come se non si fidassero del tutto.
"Questo bell'ambiente e' il risultato di un restauro recente (voluto dal nostro Sindaco) che ha portato a nuovo splendore il soffitto dipinto dal pittore Tamarozzi nel 1837 (e' stata ritrovata la sua firma in un angolo lassu') che rappresenta un trionfo allegorico del dio Apollo, con foglie, fiori, leoni e cartigli. Nei quattro angoli potete vedere dipinte infatti quattro raffigurazioni statuarie del dio. Dal centro del soffitto pende uno splendido lampadario ottocentesco in bronzo dorato. Alle pareti Nord e Sud notate quattro grandi vedute paesaggistiche dello Zola, un pittore bresciano del '700 che opero' molto nella nostra citta'. Vorrei farvi notare come le vedute boscose e montuose siano teatro di scene bibliche talmente ridotte di dimensioni rispetto allo sfondo da risultare persino difficili da scorgere. Ma se guardate bene potete riconoscere una fuga in egitto nel primo, un san Girolamo penitente, una Maddalena e un battesimo nel Giordano. Notate come tutti e quattro i dipinti si accostano bene alle tinte delle pareti e del soffitto. Sulla parete Ovest spicca un bello specchio settecentesco con cornice in oro zecchino e soprattutto il magnifico camino in marmo databile al '500 e proveniente, sembrerebbe, dagli appartamenti del Palazzo dei Diamanti, una delle dimore patrizie piu' importanti della citta'. Il tavolino davanti al camino, circondato dai divani in velluto color crema, e' un originale del 700 ma acquistato di recente. Il tavolo del Sindaco e' invece un pregevole manufatto di falegnameria del '600. Le sedie sono del '700 e la scrivania dove siede il Sindaco e', come vedete, in stile impero. Sulla parete Est sono stati collocati 4 ritratti di Confalonieri del popolo, scelti personalmente dal Sindaco e facenti parte della collezione che abbiamo gia' visto in corridoio."
La signora non dice (forse non lo sa) che nel '99, appena arrivato, ho fatto sostituire il ritratto di un confaloniere del '700 che era morto 14 giorni dopo l'insediamento. Gia' io mi sentivo debilitato dalla campagna elettorale e quel ritratto (con un volto emaciato che sembrava anticipare l'evento funesto) non mi pareva di buon augurio.
"Infine vorrei farvi notare il bellissimo pavimento in graniglia multicolore a disegni geometrici tondeggianti. Un bellissimo esempio dell'artigianato locale dell'800. Ecco: salutiamo ancora il Signor Sindaco e proseguiamo".
Le teste si sollevano dalla contemplazione del pavimento e gli sguardi si spostano su di me. Io sorrido e mi avvicino alla porta. Molti passano facendo un leggero cenno con gli occhi. Una persona mi si avvicina e mi chiede: " Ma lei come fa ad arrabbiarsi lavorando in un posto cosi' bello?" Torno a sorridere mentre gli stringo la mano: "Non mi arrabbio spesso, infatti..." (o almeno, non rumorosamente, penso fra me). Una coppia anziana mi ringrazia dicendo che non avevano mai avuto modo di vedere quelle stanze in settant'anni. Una persona di un precedente gruppo mi aveva detto di "togliere il televisore e il computer da un ufficio cosi' bello, perche' non ci stanno bene". Un signore si avvicina e mi saluta affettuosamente. Mi accorgo che e' un vecchio amico di mio padre. Lo saluto anche io in maniera particolare. Poi rientro nei ranghi. Uno degli ultimi visitatori mi offre la mano piegandosi leggermente e mi dice: "Grazie signor Sindaco di averci invitato qui da lei". Come se fosse casa mia. Io gli allungo la mia dicendo ancora una volta che il Comune e' il Palazzo dei cittadini e che sono lieto di averli potuti ricevere di persona. La guida mi sorride e procede oltre.
" Nei prossimi saloni con tracce di affreschi ornamentali o stemmi di famiglia hanno sede la segreteria e il Gabinetto del Sindaco. Cioe' l'insieme dei suoi piu' stretti collaboratori: ecco infatti la signora Silvia, la segretaria particolare del Sindaco. Vedete queste splendide sale ancora pavimentate in cotto rinascimentale e che vista magnifica hanno sulla cattedrale del XII secolo, opera di "Nicolao scolptore", come dice la scritta in volgare che e' stata ritrovata sul basamento laterale della costruzione. Nella prossima sala, invece, di costruzione molto piu' tarda, detta "sala dell'Arengo", potrete vedere affreschi di Funi, il pittore degli anni 20/30, che raccontano antiche leggende della citta'. Vedete una rappresentazione di Ercole con la clava, che intende richiamare il Duca Ercole. In quella parete l'Ippogrifo di Ariosto. In quell'altra la triste storia di Ugo e Parisina che, come sapete, furono decapitati quando il Marchese Niccolo' III, marito di Parisina e padre di Ugo, scopri' il loro legame segreto. Un po' come i Paolo e Francesca danteschi, insomma. Nell'ultima parete vedete una rappresentazione stilizzata della citta' di Roma, con il Colosseo e la Piramide Cestia e dei cavalieri che riprendono i volti dei gerarchi dell'epoca. La visita guidata termina qui. Spero di esservi stata utile e vi porgo i miei auguri per una buona domenica."
Qualcuno applaude, molti ringraziano la signora "cosi'gentile e preparata" e la salutano stringendole la mano. Si avviano di nuovo verso lo scalone monumentale per scendere, mentre un nuovo gruppo sta per entrare nel mio ufficio.

sabato 25 febbraio 2012

Mente Locale su Internazionale: un bell'ossimoro

venerdì 24 febbraio 2012

Sonja di Norvegia (seguito e finale)

La serata al Grand Hotel contiene altri momenti di panico e di comicità insieme. In breve: appena arriviamo dobbiamo consegnare l'invito e in cambio ci danno un altro cartoncino con il numero del tavolo. Mi accorgo con terrore che ci hanno messi in due tavoli separati (il perché non l'ho mai capito: e non mi sembra una scelta molto elegante: ma i nordici sono diversi da noi). Eileen parla e scrive correntemente in tre lingue, io no: sono terrorizzato! Percorriamo un corridoio: ci viene incontro un signore in divisa dall'aspetto (veramente) regale e il petto pieno di medaglie. Io e Eileen pensiamo per un attimo che sia il Re di Norvegia e stiamo per salutarlo nel modo dovuto, quando ci rendiamo conto che lo stanno chiamando e lui corre via in modo assai poco regale. Alla fine scopriremo che era un ufficiale della guardia del Palazzo. Forse solo una guardia, chi sa. Infatti le medaglie si sprecano su quelle divise molto più colorate delle nostre, come nelle cerimonie sulla Piazza Rossa.

Arrivati nella sala dove gli invitati si conoscono e bevono qualcosa facciamo un po' di conversazione in piedi ma non conosciamo nessuno. Finalmente incontriamo l'ambasciatore in Norvegia e sua moglie (che sono persone veramente gentilissime e disponibili) e parliamo un po' con loro. Poi arriva Enrico Letta (che avevo conosciuto da Ministro dell’industria) e anche con lui scambiamo qualche saluto: ma la gran parte del tempo parliamo fra noi in un angolo. Alla fine si va a cena in un salone enorme con un lungo tavolo rettangolare dove staranno seduti il Re, la Regina, il Presidente Ciampi, la Signora Franca e altri. Davanti al tavolone, molti tavoli tondi da quattro persone ciascuno. Ci perdiamo di vista. Io sono seduto con personale dell'Ambasciata di Norvegia in Italia e con una signora norvegese che parla anche francese, per fortuna. Io con l'inglese sono un disastro, mentre con il francese mi vergogno molto meno e riesco a simulare disinvoltura (anche se ogni tanto, soprattutto i francesi, mi guardano spalancando gli occhi). In mezzo ai tavoli c'è un signore in piedi vestito in divisa che attira la mia attenzione: non solo è pieno di medaglie, ma ha una staffa di una decina di centimetri, che esce da un lato della giacca, in modo da ospitare ancora più medaglie di quelle che ci starebbero normalmente. Chiedo alla signora vicino a me chi sia quello e lei mi risponde sorridendo che è uno dei suoi subordinati: che è il cameriere capo della Regina. Le domando come mai tante medaglie (che nemmeno un generale sovietico avrebbe avuto il coraggio di mettere) e lei sorride. Ha l'aria di volermi dire che in Norvegia i maschi hanno quel debole lì: ma non ne sono sicuro. Poco dopo scopro che la carne tenerissima e dolciastra che sto mangiando è renna. Mi chiedo dove l'abbiano trovata a Roma o se l'abbiano portata loro direttamente da Oslo, ma non faccio domande. Si parla del più e del meno sulla situazione italiana: faccio qualche domanda generale sulla Norvegia (che dal punto di vista paesaggistico è bellissima: davvero. Con coste strepitose, senza molti eguali nel mondo). Imparo che l'Italia importa ogni anno l'intera produzione norvegese di stoccafisso (non di baccalà, attenzione) e mi chiedo, fra me e me, chi è che possa mangiare tanto stoccafisso: i liguri? i marchigiani? boh... Non ci sono discorsi ufficiali e in un'oretta e mezza la cena finisce. Ci riuniamo di nuovo in un foyer: ancora chiacchiere fra noi e con l'ambasciatore e sua moglie. Poi arriva una signora del cerimoniale (dovrei dire un sergente o un colonnello) e ci dice che è venuto il momento di presentarci ai Sovrani. Ci accompagna in un'altra stanza dove ci sono anche i Ciampi. Si deve aspettare un momento. Noi ci presentiamo al Presidente e alla Signora Franca (che ancora non conoscevamo): stiamo rispondendo alle domande gentili che ci fanno sulla nostra città ma torna il "sergente" a chiamarci e dobbiamo lasciarli di colpo: "arrivederci Presidente, arrivederci Signora, molto lieti, molto lieti...". Un'altra figura da ragazzi di campagna! Poi veniamo introdotti al Re e alla Regina che, in piedi, stanno salutando altri ospiti. Ancora un minuto di attesa e tocca finalmente a noi. Aspettiamo che siano loro a darci la mano, come ci aveva avvertito mia suocera e pieghiamo la testa in segno di saluto. Il Re ha l'aria molto annoiata. Anzi, sembra essersi addormentato in piedi: tiene il collo piegato da un lato e guarda a terra, rassegnato. Si scuote solo quando Eileen dice di aver visto su Internet che lui è un appassionato di barche a vela. Alla parola "sailing boat" alza la testa, sorride e per un istante ci guarda persino incuriosito. Dice qualche frase di circostanza che non capisco e poi torna a piegare il collo e guardare a terra: il tempo è scaduto e lui si è assopito. La Regina invece è impeccabile: sorride e si mostra attenta, ci dice che è lieta di venire ad inaugurare la mostra da noi. Ma anche il nostro turno di presentazioni è terminato e non ci resta che salutare: ancora l'ambasciatore Mochi Onory (che non potrà essere in città perché deve andare a Milano con il Re: verrà invece sua moglie), Arrigo Levi (portavoce del Presidente Ciampi) che appena ci vede se ne esce con la frase che Eileen è tale quale al padre (ma noi sorridiamo perché capiamo che voleva essere un complimento) e poi (finalmente) possiamo tornarcene in albergo. La serata è finita abbastanza in fretta e, tutto sommato, con pochi traumi: ma domani sarà una giornata lunga.

Partiamo molto presto il mattino, con la macchina del Comune. La Regina arriva con un aereo e dobbiamo assolutamente essere lì pronti a riceverla. Ne approfittiamo per esercitarci. Si poteva scegliere e ho deciso che avrei parlato in francese alla Regina Sonja. Dovevo fare un breve discorso in apertura della colazione e quello l'avevo già scritto a mano. Per il resto andare a braccio, fin dai saluti. Eileen (che ha studiato in Francia) mi faceva fare allenamento durante il viaggio parlando in francese del più e del meno, come avrei dovuto fare più tardi. Ogni tanto telefonavamo alla sua amica Gaud che da Parigi (libro del cerimoniale francese alla mano) ci dava consigli su cosa dire e soprattutto cosa non dire. Ad esempio, assolutamente vietato dire: "Bienvenue" o qualcosa del genere al momento di riceverla. Dopo qualche consultazione abbiamo optato per un "Je suis très heureux de vous revoir, votre Majestee". E insomma, dopo qualche ora di esercitazione mi sentivo abbastanza tranquillo. Tanto più che Gaud da Parigi mi aveva autorizzato a usare anche (dopo un po') un più facile "Madame la Reine".

Arriviamo in città dopo tre ore e mezza circa: giusto il tempo di cambiarci (indossare un vestito nuovo e la fascia tricolore) e siamo sotto il Teatro. Ripassiamo la parte: faccio un'ultima ricognizione al piano di sopra assieme a Silvia. Ci sono già tutti: Prefetto, Presidente della Provincia, della Cassa di Risparmio, della Camera di Commercio, il Vescovo. Tocca a me presentarli alla Regina uno per uno: in francese. Li prego di fingere di niente se dovessi sbagliare nomi e incarichi (sono più di 10 e già in italiano mi confonderei di sicuro). Mi rispondono sorridendo di stare tranquillo. Invitato (inatteso, ma gradito) anche Vittorio Sgarbi che allora era Sottosegretario al Ministero dei beni culturali e quindi stava rappresentando ufficialmente il Governo. Questa novità comportava un po' di variazione di programma. Vado dalla signora del cerimoniale norvegese che era già sul posto e le spiego che è arrivato anche il Sottosegretario di Stato Sgarbi e che bisognava prevedere anche un suo discorso all'inaugurazione della mostra. La signora mi risponde tranquilla che non se ne parla nemmeno: "Il programma resta quello stabilito". Io cerco di farle capire che un rappresentante del Governo non si può non farlo parlare. Lei mi guarda (occhi azzurri, freddi) e mi dice testuale: "Questo è un problema vostro". Porca miseria! Comincio a rimpiangere i nostri bizantinismi: essere precisi nell'organizzare le cerimonie è un vantaggio ma poi è chiaro che alla fine qualcosa si rompe, almeno in Italia! Torno da Vittorio con cui ho confidenza e simpatia dai tempi del "Liceo Ginnasio Ariosto" malgrado la sfida elettorale del ‘99. Gli spiego come sono messe le cose e lui mi dice (giustamente e senza nessuna arroganza, perché quando è nella sua città si comporta sempre in un modo abbastanza civile): "Come faccio a non parlare alla mostra sulla pittura norvegese? sono il rappresentante del Ministro..." Torno dalla colonnella norvegese e provo a insistere. Questa volta, non so perché, si impietosisce e mi risponde: "Va bene: il Sottosegretario ha 30 secondi per il suo saluto. Perché la Regina poi deve ripartire". 30 secondi? Vittorio in 30 secondi non dice nemmeno come si chiama! Ma non c'è ulteriore spazio negoziale, lo vedo da come quegli occhi gelidi mi guardano. Torno da Vittorio che sta dall'altra parte della guida rossa e gli dico: "Senti, quel cerbero ti ha dato 30 secondi. Io ti do 3 minuti dei miei e così hai 3 minuti e 30 secondi a disposizione, ok?". Anche questa volta mi va bene: Vittorio si impietosisce e mi dice di non preoccuparmi. Invece io sono preoccupato eccome. Lui dovrebbe stare di sopra con le altre autorità e invece è giù con noi. Dovrebbe stare alle mie spalle ma figuriamoci! E non ho idea se conosca il copione: escludo del tutto che si sia preparato!

Pochi minuti di ritardo e arriva la Regina Sonja. Inspiegabilmente tutto funziona come da copione. Vittorio si presenta e la Regina (che ha davvero una professionalità come la carica richiede) lo saluta cordialmente. C'è un po' di gente che ci guarda dall'altro lato della strada. Sonja saluta sorridendo, alzando il braccio e muovendo il polso. Fino a quel momento quel gesto (da regine) l'avevo visto solo nei filmati su Elisabetta seconda. Mi chiedo: ci sarà una scuola professionale per regine da qualche parte? Poi mi riprendo: lei mi sorride (del resto, con quella fascia tricolore che ho addosso non può confondersi) e mi si avvicina, le presento Eileen
e ci avviamo su per le scale del Teatro. Mentre saliamo riesco anche a chiederle come è andato il viaggio e parlarle un momento della nostra città. (Non azzardo a commentare la cena della sera prima perché immagino che, nel mio francese, non si distingua bene il "renne" di renna con il "reine" di regina e il rischio di dirle che "era buona la carne di regina" è alto). Arriviamo su. Il copione dice: il Sindaco consegna la Regina al responsabile di camera che la conduce in bagno. E così avviene. Io ne approfitto per togliermi la fascia (come previsto e concordato) e dare un'ultima occhiata alla sala da pranzo allestita nel foyer del teatro. Tutto è in ordine: le autorità sono già schierate su un lato, quasi sull'attenti. Ci sorridiamo, complici. Sulla bella tavola imbandita ci sono delle sculture che il maitre si è portato dal suo ristorante. Il maitre (Igles Corelli) è molto bravo e conosciuto ma le sculture non mi piacciono per niente. Ormai è tardi. Chiedo a Silvia di girarle in modo che quei fronzoli di ceramica si vedano il meno possibile. Ma qui compio un ennesimo errore da provinciale (o questa volta sono i norvegesi a manifestare qualche pecca?) perché quelle sculture piaceranno moltissimo alla Regina e al suo seguito (di donne): persino più del pranzo (che è eccellente) e le osserveranno a lungo davanti ai miei occhi inorriditi.
Intanto mi fanno capire che Sonja è uscita dal bagno. Corro a riprenderla e insieme entriamo nel salone. Le presento uno a uno le autorità (nome cognome e incarico, in francese, senza sbagliare quasi nulla) mentre lei allunga la mano e sorride ad ognuno. Poi, come previsto, l'accompagno al suo posto e vado al mio che è di fronte a lei. Qui il copione era precisissimo: la Regina si siede, si siedono le signore, il Sindaco si siede, si siedono i signori. Il sindaco si rialza e legge un (breve) discorso di saluto. Il Sindaco termina il discorso, la Regina sorride, il Sindaco si risiede e comincia la colazione. E io mi chiedevo: e se non sorride? Invece no (forse anche lei si era preparata o forse lo fa tutti i giorni): ha sorriso in maniera esplicita e incontrovertibile e questo ci ha consentito di cominciare a servire in tavola. Alla sua destra il Vescovo, alla sua sinistra Sgarbi, io di fronte, direi che siamo riusciti a fare persino una conversazione decente. Sonja, comunque, non lasciava trasparire nessuna emozione: nemmeno quando Sgarbi le ha messo quasi la testa nel piatto per farle vedere un punto preciso su una carta della città che lei teneva davanti a sé. Nemmeno quando lui ha detto (per scherzo, ma insomma...): "madame, mai vous êtes folle!" in risposta a una battuta di lei. E nemmeno quando, alla fine del pranzo, le ha rovesciato un bicchiere d'acqua addosso. Impassibile, impeccabile: very professional. Se si può dire così di una regina.

Il seguito del pomeriggio è filato via liscio come doveva. Siamo andati alla mostra io e lei soli nella sua macchina con le bandierine norvegesi sui parafanghi. Lungo il Corso Ercole d’Este le stavo dicendo che è una delle strade rinascimentali più belle d’Italia e lei (che si era evidentemente preparata sulla città) mi ha corretto dicendo: “Pas seulement d’Italie, d’Europe mon chère, d’Europe…”
A Palazzo dei diamanti Abbiamo fatto i discorsi ufficiali: io e Vittorio in Italiano, lei in norvegese. Abbiamo visitato la mostra e siamo tornati (passando per la prefettura) in Municipio: per un veloce scambio dei doni. Nella Piazza municipale ancora non sistemata era allestita una grande bandiera norvegese fatta di fiori (a coprire i buchi ancora visibili nel manto della piazza). Noi le abbiamo regalato una bella carta originale del '600 che rappresentava il nostro territorio con il fiume e la laguna fino al mare. Lei un vaso rosso di ceramica smaltata con sopra la "S" dorata di Sonja. Discesa dello scalone, saluti ai cittadini incuriositi che ci aspettavano. Poi il commiato: la Regina sorride e porge la mano a Eileen che non riesce a dirle niente di meglio (dopo tutto quel raccomandarsi con me) che un "Au revoir, Madame la Reine" per cui la prendo in giro ancora oggi. Sonja alza il braccio e muove ancora il polso in segno di saluto, poi sale in macchina e parte. La stanchezza si impadronisce immediatamente di noi: siamo stremati ma felici che le cose siano andate in maniera decente: che non abbiamo fatto una figura da contadini. Non al Palazzo dei Diamanti, almeno dove la mostra è stata ammirata anche dalle signore norvegesi.
Un giornalista, qualche tempo dopo mi ha mandato una foto in cui si vede la Regina che mi sorride e mi sistema la fascia con una mano. Sotto ci ha messo una frase in dialetto come una zia direbbe a un nipote in disordine: "Tié sempar tutt strabizzà!". Sta ancora in bella mostra nel mio ufficio.

giovedì 23 febbraio 2012

Capitolo inedito: Una regina a Ferrara

13. Sonja di Norvegia (prima parte)

Nel corso degli ultimi anni sono passati per la mia città molti personaggi importanti: premi Nobel, ambasciatori, scrittori, attori, registi, capi di stato: a partire da Ciampi e Napolitano, ovviamente. Per il bilancio di legislatura abbiamo anche preparato un bel manifesto con i loro ritratti dal titolo: "Cinque anni di lavoro in comune" (giocando un po’ banalmente sulla "c" maiuscola o minuscola della parola comune). E l'abbiamo attaccato in tutta la città (negli spazi appositi e regolamentari). È un bel manifesto a sfondo bianco con tante foto a colori sovrapposte una all'altra. Chi guardava bene poteva riconoscere: Ciampi, appunto, che ha inaugurato l'anno speciale dedicato ai giovani, Napolitano che ha inaugurato il centro studi Ermitage Italia, Gorbacev, Perez Esquivel, la Montalcini, Romano Prodi che è venuto ben due volte a parlarci dei problemi dell'Europa da Presidente dell’Unione, Giuliano Amato, la premio nobel iraniana per la pace Shirin Ebadi, il Presidente dell'Uruguay e altri, tra cui Massimo Cacciari, Luca Ronconi e Mariangela Melato, Claudio Abbado che dirige con la bandiera della pace distesa sul palcoscenico del Teatro comunale.
In una delle foto centrali si può notare una signora minuta e molto elegante. Non sono in tanti a conoscerla: è Sonja, la Regina di Norvegia. Che è stata in città non più di cinque o sei ore, ma ha impegnato tutto il mio staff (segreteria e gabinetto) a tempo pieno per una quindicina di giorni. E non solo il mio staff. Anche se, ci hanno spiegato, quella di Norvegia è una delle corti e delle famiglie reali più "sobrie e alla mano" d'Europa. E penso sia vero. Malgrado l’impegno io sono diventato, dopo quella visita, vagamente filo monarchico. Anche perché la visita dell'allora Presidente della Repubblica Ciampi (e della Signora Franca soprattutto) è stata molto più complicata da gestire (per tutta la città: Comune, Provincia, Prefettura soprattutto) di quella della Regina. Con le bizze non simpatiche che la Signora Franca si inventava ad ogni passo. Fin da quando, appena arrivata e seduta su un divanetto in Prefettura, si è girata e ha detto bruscamente al Presidente Errani: “La smetta di toccarmi!”. Lui si è girato a guardare me, come dire “non penserai che sia vero?” io ho fatto la faccia impassibile di chi non vuole entrare in queste relazioni interpersonali. O quando, a cena in Prefettura, ha fatto piangere la moglie del Prefetto dicendo che raramente aveva mangiato così male. La mia fede repubblicana si è rinsaldata con la visita della coppia presidenziale successiva (Giorgio e Clio Napolitano). Fino ad allora ho tifato per la professionalità della casa regnante di Norvegia. Racconto l'episodio di Sonja perché penso che pochi sappiano quanto lavoro c'è dietro una cerimonia ben riuscita e quanta energia richiede.

La storia di Sonja comincia da una delle mostre organizzate dalla nostra galleria d'arte contemporanea, conosciuta come il "Palazzo dei diamanti", per la facciata ricoperta di blocchi appuntiti di marmo bianco in cui si organizzano le mostre. È uno degli edifici del '500 più belli della città, collocato al centro di Corso Ercole d'Este, l'asse principale dell'addizione urbanistica rinascimentale. L’unico di marmo, assieme alla cattedrale del XII° secolo. L’attività del Palazzo dei diamanti è ormai consolidata nel tempo: due bravi direttori si sono susseguiti negli ultimi venti anni e il Palazzo dei diamanti è quasi sempre una delle sedi di mostre più visitate d'Italia. Il direttore attuale mi obbliga (giustamente) a programmare le mostre con cadenza triennale, in modo che lui possa intrecciare rapporti con musei e collezionisti di tutto il mondo per avere prestiti sempre più difficili (e dopo l'11 settembre 2001 sempre più costosi) dei quadri più importanti. Altrimenti bisogna andar dietro alle proposte dei mercanti di mostre (chiavi in mano) e tutto diventa meno presentabile e di bassa qualità. Magari un successo di pubblico, perché la gente accorre per vedere una mostra di Gauguin (per dire), anche se alla fine di quadri meritevoli ce ne sono solo un paio. Noi programmiamo, per tempo, due mostre l'anno: una che incontri il consenso di un pubblico largo (e recuperi un po' delle spese) l'altra invece più attenta ad approfondire autori, scuole di pittura e periodi meno conosciuti al grande pubblico (con questa seconda mostra, di solito, andiamo in rosso). Inutile che enumeri tutti i successi del bravo direttore (a partire dal Monet del 1993 fino al Raushemberg del 2003) e qualche incredibile flop (come l' esposizione di Picasso ceramista che era bellissima ed era stata la mostra dell'anno negli Usa, ma da noi non ha avuto che 40.000 visitatori, perché il grande pubblico italiano non va mai volentieri oltre gli impressionisti e Caravaggio, come ho imparato). Dirò che quell'anno avevamo in calendario una esposizione sulla pittura norvegese (titolo: "da Dahl a Munch"), che da noi è ancora pochissimo conosciuta e invece è piuttosto ricca di opere sia del '900 che del secolo precedente. Sapevamo tutti da tempo di quella iniziativa preparata in collaborazione con il Museo nazionale di Oslo e l’ambasciatore in Norvegia Andrea Mochi Onory si era molto adoperato per tentare di avere la famiglia reale presente all'inaugurazione nella nostra città. Dopo un lungo lavoro sul programma (fissa le date, spostale, spostale ancora), finalmente arriva la conferma: il Re e la Regina di Norvegia saranno in visita ufficiale in Italia dal giorno 23 ottobre 2001. Il 24 staranno a Roma ad incontrare le più alte cariche della Repubblica, poi si divideranno: il Re va a Milano ad un incontro con gli industriali italiani, la Regina viene da noi. L'ambasciatore ci segnala i nomi delle responsabili del cerimoniale della Regina (tutte donne, tutte oltre il metro e ottanta di altezza) con cui i nostri uffici si debbono mettere in contatto. Così facciamo e comincia una trattativa a distanza precisa ma difficile per riuscire a incastrare tutti i desideri e le necessità. Però loro almeno hanno le idee chiarissime (cosa non riscontrabile in altri cerimoniali italiani con cui abbiamo avuto a che fare: che hanno un numero spropositato di interlocutori - tutti più bassi di un metro e ottanta - e ciascuno con un'idea sua propria di cosa fare e cosa no). Così fin dall'inizio decidono che è il Comune (e quindi il Sindaco) a ricevere la Regina e nessun altro. Sarà poi il pranzo ufficiale l'occasione in cui presentarle le altre autorità cittadine. Non mi si chieda perché i capi di Stato stranieri considerano il sindaco della città il loro interlocutore locale, il rappresentante dello Stato e del Governo (come da legislazione vigente) e invece i Capi dello Stato italiani preferiscano avere come interlocutore il Prefetto, perché non l’ho capito e mi incavolo solo a pensarci.
Con il cerimoniale del Presidente Ciampi ci fu anche un incidente diplomatico. La signora che lo guidava pretendeva che il saluto a Ciampi nel salone d'onore del Municipio lo facesse (chissà perché) il preside del Liceo classico cittadino, in quale (da persona perbene) me ne informò imbarazzato, e non il sindaco. Ho dovuto dire alla signora che allora la cerimonia si sarebbe svolta al Liceo Ariosto e non in Comune, per farle cambiare quell'idea balzana.
Torniamo a Sonja. Insomma il mio staff si mette seriamente al lavoro e tutti (me compreso) impariamo molte cose nuove di cui non sospettavamo nemmeno l'esistenza. Fino al giorno della prova generale, alla presenza di una signora del cerimoniale che mi consegna una specie di copione scritto di cosa dovevo fare. Ricordo che stavamo sotto il Teatro comunale, dove avrei dovuto aspettare il corteo assieme a mia moglie Eileen per poi condurre la Regina Sonja al foyer del Teatro, dove si teneva la colazione, e andare infine alla mostra. Eileen non c'era e Andrea, il mio autista, ne faceva la parte, mentre Silvia (la mia segretaria) e Micol (dell'ufficio di gabinetto) leggevano dal copione le cose da fare, sotto l'occhio vigile e severo della signora norvegese. "Un addetto apre lo sportello, il Sindaco si avvicina a un metro dalla macchina, la Signora resta alle spalle, il Sindaco saluta la Regina, poi si gira e le presenta la moglie, poi si avvia con la Regina lungo la guida rossa verso le scale del Teatro, sale le scale parlando con la Regina tutti gli altri seguono..."

Nel frattempo era arrivato anche un invito della Casa reale norvegese (a sindaco e signora) per recarsi a un ricevimento a Roma al Grand Hotel la sera prima della nostra cerimonia, per essere ufficialmente presentati al Re e alla Regina. Io ho tenuto l'invito nella borsa per qualche giorno, senza farci troppo caso. Fino a quando mi chiama Eileen da Milano per sapere qualche particolare: quando partiamo, quando torniamo e soprattutto come ci si deve vestire. La richiamo dopo un po' e le dico (da ragazzo di provincia) che sull'invito c'è scritto semplicemente "black tie" e che mi devo solo comprare una cravatta nera perché non ce l'ho: e siamo a posto. Lei mi dice che "black tie" non è una cravatta ma un vestito e che deve chiedere a sua madre che vestito è esattamente. Sua madre (che è stata “ambasciatrice”, come si dice nel gergo diplomatico per la moglie di un ambasciatore) di queste cose se ne intende e ci spiega infatti che "black tie" è un tipo ben preciso di vestito da cerimonia. E qui nasce un primo problema: perché mia suocera è americana e sa che vestito è nei paesi anglosassoni, ma non sa dirmi come si chiama in italiano. Si intrecciano le telefonate. Dalla descrizione sembrerebbe trattarsi di uno smoking (o qualcosa di molto simile). Io non ho lo smoking e non ho nessuna intenzione di comprarne uno (ammesso che si trovi in pochi giorni) e tanto meno farmelo fare. Optiamo per l'affitto. Silvia, la mia segretaria, fa una ricerca telefonica e troviamo a Bologna il posto che noleggia smoking e altri abiti di cerimonia e di scena e vado un bel giorno a fare le prove delle misure e il resto. Il negozio è in periferia, in uno stabile moderno, ma all'interno cambia tutto: corazze da centurioni, divise napoleoniche, centinaia di sacchi di plastica contenenti ogni genere di indumento storico. Ricordo due scatoloni con scritte a pennarello: "copricapi del 500" uno e "calzari romani" l'altro. Trovo lo smoking della mia misura: pantaloni, fascia nera da mettere al posto della cintura (particolare importante da tenere a mente), camicia plissettata, giacca e papillon. Non le scarpe: quelle me le devo comprare per forza: calzari romani sì, stivali da moschettiere a scatoloni, scarpini da smoking no! Mi lavano lo smoking e sistemano tutto per la mattina stessa della partenza per Roma.

Tre giorni dopo, scendendo in auto, passiamo a ritirare il sacco con tutto il vestito e gli accessori. A me pare sia così pesante che mi immagino di avere caldo e di sudare terribilmente alla cena che temiamo essere al chiuso. A Roma per giunta, farà ancora più caldo che qui. Comunque ci consoliamo con l'idea che non durerà molto e che è un sacrificio che bisogna fare. Arriviamo in albergo il pomeriggio (un bell'albergo a Trinità dei Monti, ben diverso dai miei soliti alberghetti romani) e decidiamo di fare due passi. Verso le 5 torniamo a riposarci e riceviamo, per fortuna nostra, una provvidenziale telefonata della moglie dell'ambasciatore Mochi Onory che dice a Eileen: "Ha saputo, vero cara, che per via dell'incidente di Linate questa sera sono cambiate le disposizioni... spero lei abbia portato anche un vestito lungo". Eileen bluffa e dice che certo aveva "anche" un vestito lungo e invece aveva "solo" un vestito lungo e poi chiede (per sicurezza) gli uomini cosa debbano fare e la signora risponde che anche per gli uomini niente più "black tie" ma un semplice vestito scuro in segno di rispetto per le vittime dell'incidente aereo. Perché c'era stato pochi giorni prima quell'orrendo incidente a Linate in cui un aereo in decollo per Stoccolma aveva urtato un piccolo aereo che gli attraversava la pista ed erano morti molti Svedesi e Norvegesi.

Eileen abbassa la cornetta e mi spiega pallida il senso della telefonata. Io mi sento perduto perché ho un solo vestito (blu scuro) tutto stropicciato dal viaggio, non ho una cintura nera e non ho una camicia adatta. Mentre come scarpe comincio a chiedermi se posso riciclare quelle di vernice dello smoking. Chiamo il portiere dell'albergo e gli chiedo se hanno un servizio di stireria. Loro mi rispondono di sì, ma che funziona solo la mattina. Allora domando se mi possono portare un ferro da stiro e un asse. Me lo portano e mentre io mi metto a stirare il mio vestito blu ridotto un disastro, Eileen esce a comprami una camicia bianca e una cintura nera da sera. Decidiamo che le scarpe e la cravatta si possono riciclare. In qualche modo riusciamo a rimediare: per fortuna a stirare me la cavo benino fin dai tempi dell'università, quando abitavo da solo. (segue)

mercoledì 22 febbraio 2012

Circolo dei Lettori, Torino

Ieri a Torino, nella bellissima sede del Circolo dei Lettori, con il Sindaco Piero Fassino e molti amici, si è discusso di ruolo dei sindaci e responsabilità nel rappresentare la propria comunità.



Si sono messe a confronto due esperienze molto diverse fra loro come Torino e Ferrara e sottolineate le analogie nel dover programmare una crescita non più monosettoriale (grandindustriale a Torino, agricolo industriale a Ferrara). Le difficoltà dei lavori pubblici ma anche i risultati che, alla fine si percepiscono. Un grazie di cuore a Piero Fassino per il tempo che mi ha dedicato e molti auguri di buon lavoro. Grazie anche a Giorgia D'Errico che ha fatto riuscire l'iniziativa.

domenica 19 febbraio 2012

Bei ricordi e un pizzico di nostalgia

11. Lux Retia

È stato nell'estate del '99, appena eletto sindaco, che ho perso la testa per Lucrezia. Per un paio d'anni non ho pensato ad altro. E ne porto ancora i segni. Eileen ha sopportato, fin dai primi momenti, mi ha capito e perdonato: perché è stata una infatuazione tutta cerebrale. E per nulla corrisposta.
Lucrezia è irraggiungibile. Appartiene a una famiglia difficile da avvicinare: molto potente e molto pericolosa (specie il fratello). Non l'ho mai vista di persona (se non in alcune rarissime immagini) e soprattutto (ostacolo decisivo) la Lucrezia di cui parlo è morta quasi 500 anni fa. Ma la mia simpatia nei suoi confronti è stata forte, fin dall'inizio: lo ammetto. Tanto forte che nessuno la nomina, in città, se non con molta cautela: come si addice ad una persona "protetta" dal Sindaco. Sto scherzando, come è ovvio, ma non troppo.
La mia è stata una passione indiretta: per seconda persona, si potrebbe dire. Perché la vera forte infatuazione per Lucrezia Borgia l'ha avuta Maria Bellonci e ci ha scritto sopra un libro bellissimo: molto moderno (un romanzo che non è un romanzo). Io l'ho ereditata (per contagio) leggendo quel libro. Perché la Bellonci, tra i suoi personaggi, ha di certo amato più Lucrezia che la cognata Isabella, direi (ma non ne ho prove certe). Troppo intellettuale la Signora di Mantova: troppo personaggio forte, protagonista lucida del suo tempo. Mentre Lucrezia ha dalla sua anche il fatto di essere vittima (fin da adolescente) delle torbide passioni del fratello e del padre, Papa Alessandro: entrambi piuttosto ingombranti come parenti (da non augurarseli). Forse entrambi innamorati di lei: certamente gelosi di lei, fino al punto da ucciderle diversi fidanzati. E anche lei in qualche modo li ha sempre amati.
Lucrezia possiede l'aura della vittima sacrificale, fin da quando la sposano a uno Sforza, dichiarandolo poco dopo impotente: e lei, che un po' lo ha amato, è obbligata ad assecondare giudizi e disegni non suoi e annullare le nozze. Come si fa a resisterle! E poi, a rovescio, è il simbolo (anche se inventato ad arte) del malcostume rinascimentale: della ricerca del potere senza scrupoli. Delle tresche, degli assassinii cruenti e delle trappole astute. Ed è una delle immagini femminili più note della storia. Anche se più deformate. Così quando Eileen ha dovuto spiegare ai cugini di Chicago di quale cavolo di piccola città italiana io ero diventato sindaco (visto che già su dove fosse esattamente l'Italia avevano qualche incertezza) ha tirato fuori Italo Balbo (il trasvolatore), perché a Chicago c'è una Balbo Avenue, Rambaldi (il costruttore di ET) e Lucrezia Borgia. È diventato sindaco della città in cui ha vissuto ed è morta Lucrezia Borgia. E tutti hanno capito: nel senso che hanno trovato un legame anche con le loro vaghe conoscenze della storia (più immaginarie che reali).
E questa presunzione di colpevolezza (senza prove certe, si direbbe) le pesa ancora addosso, povera Lucrezia. Tanto che il "Guardian" ha fatto uscire un articoletto ironico quando si è sparsa la voce che per il 2002 stavamo preparando "l'anno lucreziano": "in Italia il revisionismo deve essere davvero di moda - diceva più o meno il pezzo - se adesso pensano di rivalutare e celebrare anche una avvelenatrice come Lucrezia Borgia". Io ho scritto una mail al giornalista dicendo che non aveva nessuna prova storica per sostenere le sue accuse e che non eravamo noi ad essere antistorici, ma il Guardian. E lui mi ha risposto (da professionista britannico) che si sarebbe documentato e avrebbe volentieri cambiato opinione. Ma debbo spiegare meglio l'origine della fascinazione mia e (dopo qualche fatica) di una parte della città.
Era l'autunno del '99. Leggevo un giorno per diletto il lavoro della Bellonci, e "Galeotto fu il libro", appunto. L'avevo avuto tra le mani da adolescente a casa di mia nonna: che non era un'intellettuale. Forse portato da qualche cugina più grande che abitava dai nonni, non ricordo bene. L'avevo anche sleggiucchiato (alla ricerca di episodi scabrosi che non avevo trovato) e non mi era piaciuto molto. Era un'epoca della vita in cui il mio libro del cuore era "Sinuhe l'egiziano" e mi infervoravo molto alle immagini dell'antica Tebe egizia, dei deserti siriani, dei misteri del labirinto di Cnosso e mi commuovevo al racconto della romantica solitudine di Sinuhe. Quella specie di saggio sul rinascimento, così ben documentato, mi aveva lasciato freddo. Tutto il contrario accadde con la lettura fatta nel '99: malgrado la prima volta fosse l'edizione originale, in grande formato, con illustrazioni e la seconda, invece, solo un tascabile. Non appena assorbito il linguaggio molto moderno (per l'epoca), del "saggio-romanzato" (che sulle prime lascia perplessi) e una volta percepita l'enorme mole di studi e ricerche che c'è dietro quella narrazione documentaristica, il filo della storia non vi abbandona più e dovete andare a tutti i costi fino in fondo ad un pregevolissimo affresco storico nazionale.
Mi sono accorto, nella lettura, che Lucrezia, abbandonata Roma i primi di gennaio per andare in sposa al figlio del Duca Ercole, Alfonso d'Este, è entrata nella mia città, al seguito di un corteo di centinaia di persone e decine di mule e carrette cariche della sua dote molto ricca, il 2 febbraio 1502, salendo (guarda caso) proprio lo scalone di marmo che oggi si sale per entrare in Municipio. In quei mesi io avevo appena (per tutt'altro motivo) lasciato Roma per tornare a fare il sindaco in mezzo alle nebbie e già mi mancavano i tramonti romani, i pini marittimi di Villa Borghese che vedevo dalle finestre dell'ufficio e gli aerei che volano bassi e luminosi nel cielo azzurro scuro della sera. E così mi immaginavo le nostalgie della povera Lucrezia, arrivata in mezzo al freddo e all'umido e alle invidie e alle abitudini di una corte di provincia. Così era scattata una specie di strana solidarietà dell'esule. Ma poi, a leggere della data del 1502 il primo pensiero che mi è venuto è che avremmo potuto (anzi dovuto) celebrare i 500 anni di quel viaggio e quell'arrivo proprio il 2 febbraio del 2002 (data che, non sarebbe sfuggito ai cabalisti rinascimentali di corte, si potrebbe scrivere più semplicemente: 02.02.02).
Quando è arrivata per sposare Alfonso, Lucrezia aveva solo 23 anni e già si portava dietro la fama sinistra di essere "moglie, sorella e madre" del fratello Cesare (detto il Valentino non per meriti estetici). Nessuno sa quanto fossero stati torbidi i rapporti con il padre Rodrigo (prima e dopo che diventasse Papa), ma certo gli episodi narrati dai cronisti dell'epoca (come il ballo delle prostitute organizzato in Vaticano o la monta delle giumente cui il padre fa assistere la giovane figlia) non sono propriamente cose da educande., per quanto oggi si direbbe "serate eleganti". Ma Lucrezia quando giunge in città da noi viene descritta in maniera molto diversa di quanto non faccia poi l'iconografia successiva (fino a Hugo e Donizzetti).
Non è una bellezza prorompente (dicono i cronisti della corte estense), è graziosa ma minutina: ha bei capelli lunghi e biondi (come la "Caterina d'Alessandria" del Pinturicchio che pare abbia voluto ritrarre proprio Lucrezia nell'affresco degli appartamenti Borgia in Vaticano) e occhi chiari (forze azzurri: perché la dizione precisa dei cronisti è "occhi bianchi", come ancora oggi si dice in campagna da noi per dire "azzurri"). Ma è bastato che la prima sera Lucrezia ballasse una "moresca" nell'intervallo di una commedia di Plauto rimessa in scena (in volgare) per l'occasione delle nozze, per lasciar tutti stupefatti e ammirati. Tanto ammirati che la cognata Isabella, duchessa di Mantova, che soffriva di gelosia (non immotivata) pagò per molti mesi un tizio che stava a corte solo per poter descrivere le acconciature, i gioielli e soprattutto gli abiti che indossava ogni giorno Lucrezia e inviare dispacci a Mantova.
Insomma: 23 anni, due mariti e altrettanti figli alle spalle (più un giovane fidanzato ammazzato da Cesare mentre cercava di nascondersi tra le braccia del Papa: "che ne ebbe molto insanguinata la veste"), un folto seguito di spagnoli che introducono musiche e balli nuovi in una corte piuttosto austera: molti soldi e molti gioielli portati in dote a un suocero piuttosto attaccato al denaro. E pettegolezzi che continuano, anche negli anni successivi. Quel che è certo è che Lucrezia non lascerà mai più suo marito e la nostra città dove sarà sepolta (vestita da terziaria francescana) a 38 anni d'età dopo l'ottava gravidanza che le aveva "tolto le forze" e forse prodotto la terribile "febbre puerperale" che la fece morire.
In breve. Dopo il libro della Bellonci mi sono messo a studiare il tema (credo di aver letto tutto il leggibile antico e moderno sull'argomento). E poi a progettare un anno di iniziative da dedicare a Lucrezia: il 2002 appunto. E attorno a quest'idea coinvolgere le tante associazioni culturali della città.
L'intenzione di decretare una sorta di "anno speciale" mi era venuta anche per tentare di indirizzare le attività culturali e le iniziative che si svolgono in città in maniera un po' meno casuale e avviare una programmazione più ordinata di quanto non accadesse di solito. Mi spiego meglio: ci sono centinaia di associazioni private che promuovono ogni anno eventi della più svariata natura (dal libro sulla salamina da sugo, un tipico insaccato locale, al palio "più antico del mondo", alla pubblicazione delle opere dell'umanista Jano Pannonio, a centinaia di altre attività tutte meritorie) e che su queste iniziative chiedono un contributo al Comune (e uno alla Provincia e uno alla Cassa di Risparmio locale). Per il 2002 si poteva provare a indirizzare quegli sforzi a un tema più preciso e attinente alla storia aurea della città: Lucrezia, appunto. Non un tema obbligatorio, ma un soggetto buono per tutti i gusti. E finanziare chi ci stava. Non è stato facile presentare l'idea e farsi capire. E soprattutto farsi seguire. Perché i miei concittadini sono volonterosi ma freddi: di difficile entusiasmo. E le associazioni culturali sonno fatte così: se l'idea ce l'hanno loro è cultura con la "C" maiuscola, altrimenti è un'idea piena di difetti. Ma io mi ero preparato con cura e, a forza di presentazioni pubbliche e riunioni di lavoro (e una conferenza stampa fatta anche a Roma), sono riuscito a convincere il mio assessore alla cultura prima, la giunta poi e alla fine (posso davvero dirlo) gran parte della città. Una delle cose che, ancora oggi, mi danno molta soddisfazione e che non si è ripetuta tanto facilmente.
All'inizio i diffidenti e le malelingue (una città di provincia come la mia è piena di mancati premi Nobel che passano il tempo a criticare le idee altrui) avevano fatto circolare la voce che la proposta non fosse mia ma di mia moglie. Una calunnia subdola perché nello stesso tempo voleva dire: l'idea non è sua, l'ha copiata; forse non ci crede nemmeno lui, la porta avanti per non litigare in casa; basta fingere di niente e l'idea cadrà da sola. Ma io ho continuato a spiegarla in giro con tutto l'entusiasmo che riuscivo a trasmettere e alla fine la cosa è passata. Un po’ li capisco i denigratori: non erano abituati ad avere sindaci con idee proprie in campo culturale, per cui diffidavano. E poi, la mia città è un grande paese: se uno ha un’idea, prima la si critica e si cerca di sabotarla, poi magari ci si lamenta che si è fermata e la si rimpiange. Alla fine siamo riusciti ad avere circa 70 iniziative in 12 mesi, con la collaborazione di decine di associazioni e di privati. E in quell'anno magico (ho chiesto una verifica precisa all'anagrafe), in città sono nate molte bambine di nome Lucrezia. Impossibile ricordare tutto quello che abbiamo fatto. Ma restano impressi nella mia memoria alcuni episodi che ancora oggi mi commuovono, quando ci penso. Il primo è stato la notte del 31 dicembre 2001. Si apriva l'anno di Lucrezia e tra le feste e i fuochi d'artificio fatti nella piazza del Castello Estense (in una delle cui torri Lucrezia ha abitato) abbiamo pensato ad una coreografia particolare. Improvvisamente tra le cascate di luci e di fuochi che cadevano dalle torri è apparsa una Lucrezia in carne ed ossa che dall'alto delle balconate di marmo ha lanciato petali di fiori sulla gente. Al suono di una "folia" quattrocentesca (tratta da un cd di Jordi Savall) che avevo scelto e imposto agli organizzatori della festa. Intanto si incendiava un pannello con la scritta "Lucrezia, 02.02.02". È stato un momento toccante: sicuramente per me. Ma molti se lo ricordano come l'inizio di un anno pieno di sorprese. E di gadget lucreziani: dalla copia della medaglia storica di lei con suo marito il Duca Alfonso che abbiamo coniato per l'occasione, alle calamite con l'unica immagine vera di Lucrezia da attaccare al frigorifero, ai tanti libri usciti per l'occasione. Su tutto mi ha aiutato con entusiasmo Sergio, l'assessore al turismo di allora. Senza di lui mi sarei sentito più solo.
Uno dei libri che mi è più caro non è uscito in tempo. Ma proprio in quell'anno l'editrice Archinto ha deciso di ripubblicarlo (perché era ormai introvabile). Si tratta della raccolta delle lettere tra Lucrezia e Pietro Bembo, il maggior poeta nazionale dell'epoca, dal titolo : "La grande fiamma". Perché fra i due c'è stata una breve (non sappiamo quanto consumata) storia d'amore e (fatto ancor più commovente per l'epoca) una lunghissima amicizia documentata dalle tante lettere in cui Lucrezia, per non destar sospetti, si faceva chiamare FF (senza farci capire il perché di quelle iniziali): "Questo da qui avante serrà el mio nome: FF". Pietro Bembo dedicherà a Lucrezia il primo volume del suo libro più famoso. Lucrezia gli scriverà delle semplici lettere, a volte in spagnolo (castigliano), a volte in volgare, a volte in latino: sempre con grande eleganza e trasporto.
Tra i due scoppiò davvero una grande sintonia, se stiamo alle frasi che si scambiavano. Ma non deve far meraviglia perché l'immagine di Lucrezia avvelenatrice che abbiano noi è più tarda. E poi perché, come dicono i cronisti dell'epoca, la giovane Duchessa intratteneva alla sua "piccola" corte molti intellettuali e artisti e musicisti di allora, come usava nelle corti più illuminate. Tra gli altri, a riceverla alla sommità dello Scalone di marmo del Benvenuti quel giorno di febbraio c'era (un tal) Ludovico Ariosto che le dedicherà una (per noi lunga e noiosa) elegia di nozze e poi descriverà Lucrezia nell'Orlando come una statua che orna un immaginario tempietto di marmo. E poi il madrigalista Tromboncino e l'umanista Ercole Strozzi (figlio di Tito, uno dei savi di corte, irretito anche lui dal fascino della Duchessa fino a trasformarne il nome nel latino “Lux Retia”). Fu così lunga e solida l'amicizia con il Bembo che noi oggi ancora possediamo (alla biblioteca Ambrosiana di Milano) un pacchetto di lettere originali di Lucrezia che il poeta conservò assieme a un ricciolo dei capelli di lei. Biondissimo anche dopo cinque secoli, non c'è bisogno di dirlo. Ed è ovvio che (con la benevolenza dell'Ambrosiana ) siamo riusciti a esporre quel ricciolo nella mostra che a fine anno abbiamo dedicato a Lucrezia (costruita dallo scenografo Pizzi), tra ritratti presunti (molti) e veri (pochissimi): soprattutto una piastra d'argento dove Lucrezia è ritratta in compagnia del figlio Ercole e la medaglia coniata per le nozze con Alfonso. In entrambi i ritratti Lucrezia più che con le sembianze di un'ammaliatrice appare una donna piccolina e "paffutella". E questo ce la rende più umana. Ma il ricciolo biondo ha costituito la vera attrazione (un po' necrofila) e la vera emozione della mostra.
In quei mesi l'eco dell'anno lucreziano si è molto diffuso. E ha ingenerato molte curiosità e aspettative. Alcune discutibili. Come l'idea di un "famoso" paleo-anatomopatologo dell'Università di Pisa che si è proposto per la riesumazione del cadavere della povera Lucrezia. Io la notizia l'ho appresa da un giornale locale che aveva intervistato il professore e dava per avviato l'iter di richiesta dell'autopsia. Nel frattempo mi è arrivato il curriculum del professore (le altre riesumazioni di personaggi famosi fatte nella sua carriera) e le motivazioni della sua richiesta.
Non discuto sulla serietà scientifica dell'iniziativa. Ma a me si sono intorcinate le budella alla sola idea che il mio omaggio a Lucrezia finisse in una necroscopia. E mi sono opposto. Ho rilasciato una dichiarazione in cui dicevo apertamente che se avessi dovuto firmare io l'autorizzazione non l'avrei fatto. In effetti non era affatto chiaro chi dovesse autorizzare la cosa. Perché Lucrezia è sepolta nel convento di clausura del Corpus Domini. Quindi in uno spazio assogettato anche al diritto ecclesiastico. Ma non mi interessava approfondire: mi bastava far sapere alla Curia che non ero d'accordo. E all'anatomopatologo che, con me sindaco, quella riesumazione non si sarebbe fatta. E la scienza avrebbe atteso tempi migliori. Anche perché, che la povera Lucrezia fosse morta di parto lo si sapeva già. E il resto era più curiosità che ricerca scientifica. Sta di fatto che la cosa si bloccò e la mia coscienza nei confronti di lei fu tranquilla. Nessun oltraggio da parte dei suoi sudditi e della sua "nuova famiglia". Ma un po' di curiosità morbosa è inevitabile su Lucrezia: è in sintonia con lo spirito dei tempi, suoi e nostri. Basti pensare che la povera si è beccata (nella nostra città) almeno due volte la peste (o quello che i cronisti di allora chiamavano peste) e che il suo amico e confidente Ercole Strozzi ci ha lasciato la pelle ("la notte tra il 5 e il 6 giugno 1508" come si legge nella lapide attaccata a all’angolo di casa Romei) per essere troppo entrato nelle confidenze della Duchessa e aver fatto spesso da latore di messaggi di Lucrezia ai suoi amici (forse troppo spesso dal punto di vista del Duca Alfonso che era un tipo strano, ma anche lui certamente un "uomo d'onore").
Altro episodio che ha coinvolto tutta la città è stata la rievocazione storica del corteo. L'abbiamo chiesto alle contrade che organizzano il Palio cittadino e che hanno circa un migliaio di figuranti in costosi costumi alla foggia della fine del' 400 ripresi dagli affreschi di Palazzo Schifanoia. Erano preoccupati gli organizzatori (perché sono dei perfezionisti) di non avere i costumi giusti per la moda dell'inizio del '500, ma li ho tranquillizzati che non se ne sarebbe accorto nessuno. E loro hanno organizzato uno spettacolo magnifico con cavalli, buoi, fiaccole, alabardieri e tutto il seguito in una magnifica serata di giugno. La parte di Lucrezia la faceva una bella ragazza bionda che montava un magnifico cavallo morello. Una variante rispetto alla storia vera, dato che Lucrezia cade da cavallo durante il corteo e le viene fatta montare una mula bianca, ma noi di mule bianche non ne abbiamo trovate e quindi l'abbiamo lasciata sul suo bel cavallo. Io sono riuscito a vedere qua e là il corteo per le vie della città ma poi sono andato ad attenderne l'arrivo in Piazza del Duomo dal balcone del vecchio palazzo ducale. Lo spettacolo era davvero imponente tra le corazze, le trombe chiarine, i tamburi e tutti i figuranti in costume. E migliaia di persone che assistevano. Ma il momento in cui mi sono commosso è stato un altro: e anche adesso sento un po' di brividi, ricordandolo. Perché a un certo punto la regia della manifestazione aveva previsto che il corteo si arrestasse e Lucrezia entrasse a cavallo nella piazza a fianco della cattedrale (accompagnata solo dal palafreniere). E infatti lei è entrata, con un costume giallo dorato che copriva l'intera groppa del cavallo e ha iniziato a guardarsi intorno, come forse avrà fatto davvero la futura Duchessa, come per cercare di capire dove era giunta. Quel che sicuramente all'epoca non c'era era la sua voce fuori campo che per qualche minuto ha sovrastato il chiasso del corteo e delle fanfare. Mentre girava in tondo sul cavallo nervoso Lucrezia guardava i palazzi, il campanile della cattedrale e rifletteva fra sé, pensando con nostalgia alla sua città e alla sua famiglia. Aveva appena conosciuto il futuro marito e il futuro suocero e quindi doveva essere davvero spaesata la povera Lucrezia quella sera del febbraio 1502 (magari c'era pure la nebbia: chi sa...). Anche perché nella sua Roma non sarebbe mai più tornata. Fatto sta che alla frase : "Ho lasciato la corte romana, sono giunta in una città che non conosco e in una famiglia che non conosco... chi sa se fra qualche secolo si ricorderanno ancora di me", mi è salito un groppo alla gola che ancora sento. Ed è stato meglio così, per evitare che mi di mettessi a urlare: "Ma certo Lucrezia che ti ricorderemo, non vedi quanta gente è venuta qui questa sera per salutarti?" Poi mi sono ricomposto e con tanto di fascia l'ho accolta alla sommità dello Scalone, alle spalle di Alfonso e del Duca seduti su uno scranno e degli altri dignitari della corte estense. Dopo aver salutato la sua nuova famiglia Lucrezia mi si è parata davanti e mi ha sorriso, io ho ricambiato e le ho offerto una rosa in segno di benvenuto ufficiale (e di amicizia personale). In piazza la musica e gli applausi coprivano le emozioni. Inutile dire che la piazza dell'antico Palazzo ducale era pienissima di gente e che quando lo speaker ha annunciato che stava salendo "Madonna Lucrezia Este de Borgia" è scattato un applauso come se fosse stata, che so, madre Teresa di Calcutta.
Il paragone non sembri sacrilego. Quando mi è venuta l'idea dell'anno lucreziano, prima di renderlo ufficiale, sono andato a chiedere al vescovo (che abita in Curia, dall'altra parte della strada dove c'è il palazzo comunale) cosa ne pensasse: era pur sempre la figlia di un Papa quella che stavamo per celebrare. E lui per fortuna mi ha risposto (anche lui come se stessimo parlando di una persona presente fra noi: "A Roma era molto chiacchierata, ma qui in città è stata una brava madre e una brava moglie". Quasi una benedizione, insomma.
A qualche concittadino illustre (con un po' di puzza sotto il naso) non sono piaciute molto queste scenografie. E sono stato anche criticato per la presunzione di aver indicato alla città un tema cui tutti dovevano "uniformarsi". Ma non era così! Abbiamo continuato a finanziare le varie iniziative culturali come prima. Chi stava nel programma lucreziano aveva qualche vantaggio economico e di immagine, questo sì. Erano incentivi, non divieti.
E poi era una bella occasione di studio. Perché oggi, abbiamo un'idea delle corti rinascimentali molto distorta: dato che le guardiamo attraverso ciò che ci è rimasto di visibile: l'eleganza dei palazzi, la raffinatezza degli affreschi, i quadri famosi e tante volte copiati, le miniature sontuose, gli oggetti preziosi. Ma le corti rinascimentali erano piene di spettacoli e di scenografie improvvisate dagli artigiani di corte che forse ci apparirebbero pacchiane. Erano piene di effimero. E l'effimero di corte, ad arbitrio del Duca, inondava le strade e le piazze. Il rinascimento (come si vede nell'ultimo film di Vancini sulla congiura che qualche anno dopo insaguinerà la corte Estense, ordita e fallita proprio contro Alfonso, il marito di Lucrezia, dai suoi stessi fratelli, a causa proprio di una dama spagnola del seguito di Lucrezia) è pieno di contrasti per noi inaccettabili. Il film è importante perché non è cultura diffusa. E la distanza tra lo sfarzo della corte e la cronica miseria di tutto ciò che c'era subito fuori dalle mura del Palazzo ducale e delle splendide ville di campagna (le Delizie) era davvero incolmabile e stridente. Anche per questa idea di ricostruire (e lasciare) qualcosa, abbiamo chiesto a Vancini di girare un documentario storico sulla vicenda. Lui ha accettato con gioia e abbiamo deciso di mettere in scena un testo della Bellonci che faceva parte di una serie di trasmissioni radio intitolata "Interviste impossibili". In questa proprio la Bellonci intervista il suo personaggio preferito e la fa riflettere (alla fine della sua vita) sulla sua famiglia, i suoi amori, le sue vicende. Vancini ha potuto usare i costumi dell'epoca (quelli del Palio) e gli spazi di una casa del '400 in cui davvero Lucrezia era stata più volte (in ritiro spirituale). Ne è venuto fuori un cortometraggio interpretato da Caterina Vertova davvero emozionante. Per i testi e l'ambientazione. C'è anche una cassetta che continua a essere venduta. Ma non sono riuscito (malgrado gli auspici e gli sforzi della Fondazione Bellonci) a proiettarlo a Roma, come pensavo giusto fare. Ingenuamente: perché volevo coinvolgere il sindaco di Roma in quella che mi pareva una simpatica idea di "gemellaggio storico" fra le due città. E lui non mi ha nemmeno risposto: segno che la cosa non lo interessava per niente. O meglio, mi ha fatto rispondere da un assessore e da un dirigente dell'assessorato alla cultura. Ma anche io conosco queste tecniche di depistaggio (anche se non le uso) e ho capito che la cosa sarebbe sfumata. Infatti, dopo qualche telefonata di cortesia, non se ne è fatto più nulla. Come ho avuto modo di notare (direttamente) quando una cosa lo interessa davvero, il sindaco di Roma, chiama addirittura lui, di persona. Gli intermediari sono sempre fasulli.
Prima ho segnalato che Lucrezia scriveva in castigliano, pur essendo di origine catalana. Non sembri una mia pignoleria. Ho un episodio buffo e paradossale da raccontare a questo riguardo. Accaduto a Valencia proprio in quei mesi. Quando sono stato invitato ad una mostra sulla famiglia Borgia, assieme a tutte le città che avevano avuto a che fare con loro. L'iniziativa era molto seria, patrocinata o comunque fatta in collaborazione tra gli Archivi vaticani, la Municipalità di Valencia e altre fondazioni locali. I materiali prodotti ben costruiti e ponderosi. Ma il finale è stato, per noi italiani, assurdo e segno del crescente disordine istituzionale (europeo se non mondiale). Dove si forzano le identità culturali a norme tanto rigide quanto assurde. In breve. Alla cena ufficiale, davanti a un migliaio di persone, mi informano che avrebbero gradito un mio breve intervento sul tema dei Borgia. Io mi metto d'impegno e butto giù alcune righe in cui racconto dell'arrivo di Lucrezia in città. Lo faccio nel mio imparaticcio (ma comprensibile) castigliano. Poi approfitto di un sacerdote che c'era a tavola con me e Eileen e gli chiedo se mi corregge quelle due paginette. Lui è molto gentile e mi sostituisce gli italianismi più grossolani. Probabilmente il nostro confabulare e scrivere viene notato perché a un certo punto si avvicina uno dell'organizzazione e mi dice: "Naturalmente, Signor Sindaco, Lei potrà intervenire in Italiano". "La ringrazio, dico io, ma pensavo di dire due cose in spagnolo...". Lui non replica nulla e se ne va. Dopo un po' sento che gli oratori che intervengono a portare i loro saluti parlano tutti in catalano. Anche il sindaco di Alghero, che (in dialetto) parla un catalano che tutti capiscono e apprezzano molto. Torna l'organizzatore e mi dice: " Abbiamo pensato che sia preferibile che Lei intervenga in Italiano, visto che non è in grado di parlare catalano". Io comincio a capire qual'è il problema e a innervosirmi. Gli rispondo che se vogliono che parli lo avrei fatto in castigliano, altrimenti sarei stato zitto. Sapendo che sarebbe stata una scortesia inaccettabile non far parlare un ospite: anche nel loro delirio nazional-linguistico. Lui fa buon viso... ma persino mentre mi fa salire sul palco mi sussurra: "se parlerà in italiano a un pubblico spagnolo attirerà di più la nostra attenzione...". E io gli rispondo: "Lasci che ci pensi io all'attenzione...". E così è andata. Ho letto il saluto in castigliano e non mi è mancata l'attenzione della sala: forse più per il dispetto che per l'interesse. Poi mi hanno spiegato alcuni spagnoli non valenziani presenti, che c'era addirittura una componente ideologico politica sotto quella storia. Perché il Governo regionale è di destra e difende la lingua spagnola, mentre la città è di sinistra e difende il catalano. O il contrario: adesso non ricordo più bene la folle geografia politica di quella serata. Ma nemmeno penso meriti di essere ricordata. Ognuno ha i suoi limiti: e i suoi retaggi. E un paese come la Spagna che ci ha superato in tantissimi campi si perde (per nostra fortuna) ancora in simili sciocchezze. Se questo è il federalismo alla catalana, meglio lasciar perdere. Quando l'ho raccontato al mio amico Joaquim Gonzalez, che è catalano, ha commentato: "Non capiscono che si stanno facendo del male da soli".
L'anno delle celebrazioni lucreziane ho conosciuto anche Luca Ronconi e Mariangela Melato. Non per caso. Avevo pensato che sarebbe stato bello rifare per l'occasione l'Orlando di Ronconi degli anni 70. Uno spettacolo teatrale fatto in piazza: una tappa della storia del teatro contemporaneo. Indimenticabile per chi lo vide allora. Io ci andai tre sere di seguito: in Piazza Municipale. Perché pubblico e attori erano tanto mescolati che, per vederlo tutto, bisognava spostarsi per seguire tutti i gruppi che recitavano e lasciar spazio agli enormi cavalli di legno con cui si muovevano i paladini. Eileen l'aveva visto alle vecchie "Halles", quando faceva il liceo a Parigi, beata lei. Insomma, sono andato a Firenze a parlare con Ronconi e chiedergli (ingenuamente) se non aveva voglia di rifarlo. Ma lui mi ha risposto subito di no: con cortesia e franchezza. No, perché l'aveva già fatto. E non si sentiva di rifare una cosa già fatta. Io ho capito che un regista teatrale non è, come pensavo io, naturalmente propenso alla replica. Anzi. E Ronconi meno degli altri. Un po' deluso gli ho spiegato la nostra idea di Lucrezia e che mi sarebbe piaciuto che lui facesse comunque qualcosa. Mi ha detto che ci avrebbe pensato e ci siamo salutati. Dopo qualche mese mi arrivò la sua proposta: mettere in scena uno spettacolo di Gian Battista Andreini che si chiama "Amor nello specchio". Un testo dei primi del '600 che però ben poteva rappresentare il teatro di corte (seppure un secolo dopo Lucrezia). Abbiamo fatto diversi sopraluoghi in città e poi, alla fine, Ronconi ha scelto ("se il Comune è disponibile") l'incrocio tra Via Ercole d'Este e Via Biagio Rossetti: dove ci sono il Palazzo dei Diamanti e Palazzo di Bagno da una parte e Palazzo Prosperi Sacrati e Palazzo Bevilacqua dall'altro. Insomma (come si sarà capito) il centro dell'addizione rinascimentale della città, il luogo simbolo del rinnovamento urbanistico voluto dagli estensi. La città medioevale terminava a Nord con il Castello e l'espansione verso Nord voluta da Ercole divenne, secondo Bruno Zevi "la prima città moderna d'Europa".
Ronconi decise di porre a terra 1000 metri quadrati di specchi (su cui gli attori scivolarono non poche volte e anche Mariangela Melato che faceva la protagonista si produsse una storta) e creò una scenografia spettacolare in cui i quattro palazzi storici si specchiavano al suolo (e tutto era doppio, come nella storia) e la vista degli spettatori, seduti in una tribuna costruita per l'occasione sulla strada, correva all'infinito, oltre l'incrocio, fino alla linea lontana delle antiche mura. Lo spettacolo fu bellissimo e un giornale nazionale scrisse che la nostra città, per una settimana era stata, grazie a Ronconi "il Rinascimento italiano", senza altri aggettivi. Anche perché Ronconi, alla richiesta di altre città di replicare l'Amor nello specchio anche in altri centri storici ha risposto: "Non si può, non ci sono i palazzi adatti". Non so, sinceramente, quanti tra i miei concittadini si siano accorti di questo privilegio. Sia Luca Ronconi che Mariangela Melato e la compagnia di giovani che era con loro si sono dimostrati anche molto simpatici e alla mano. Tant'è che dopo l'ultima recita li abbiamo invitati tutti alla festa dell'Unità della Rivana dove abbiamo passato una serata indimenticabile a sentire Mariangela che ci rifaceva pezzi del suo repertorio comico a richiesta: tra cui il famoso film della Vertmuller di recente reinterpretato (molto male) da Madonna. Con loro si è costruito un bel rapporto per cui ogni tanto ci incontriamo in qualche teatro italiano a vedere uno dei loro spettacoli. E ci ripromettiamo di lavorare ancora insieme.
Come dicevo, le iniziative dell'anno lucreziano sono state tante. Alcune anche di approfondimento storico dell'epoca e dei personaggi principali. Come quel professore che ci raccontava che nell'archivio di Ercole d'Este custodito a Modena c'erano lettere e carte da cui si capiva che il Duca era rimasto completamente affascinato dalle scoperte geografiche di quegli anni. E in una lettera si faceva riferimento esplicito al viaggio importante di un certo Colombo che aveva trovato terre nuove di là dal grande mare. E il Duca (in cambio di non pochi fiorini) chiedeva di essere tenuto informato.
​Ercole d'Este era talmente preso da quello che stava succedendo nel mondo (il primo passo verso la globalizzazione, diremmo noi) che si era immaginato una cosa fantastica: ancora a metà tra la scenografia, gli apparati di corte e l'architettura. Aveva ordinato due colonne da porre al centro della "piazza nuova" (la piazza della città nuova) su cui voleva porre una sua statua equestre. Niente di particolare, se non che, giocando sul suo nome, quelle sarebbero state le colonne d'Ercole e la nuova città si sarebbe spinta "al di là delle colonne d'Ercole", come le scoperte geografiche di quegli anni. Se pensiamo che oggi ancora quancuno dubita dello sbarco sulla luna, dobbiamo apprezzare ancora di più la lucidità con cui quegli uomini vivevano il loro tempo.

lunedì 13 febbraio 2012

Precisazione dovuta

Ho fatto leggere Mente Locale a un amico dirigente regionale della Lega Coop. Non mi ha tolto il saluto e questo è già un primo successo. Mi ha anche detto che è scritto bene e questo mi ha fatto molto piacere. Però mi ha fatto notare che nel capitolo sulla Coopcostruttori avrei dovuto ricordare come la Lega delle Cooperative dell'Emilia Romagna abbia fatto moltissimo per indennizzare i soci della Costruttori che avevano perso i loro risparmi nel fallimento dell'azienda. È vero. La Lega Coop dell'Emilia Romagna ha organizzato una gigantesca raccolta di fondi che ha potuto restituire la gran parte di quei risparmi alle famiglie dei soci lavoratori della Costruttori. È stato un gesto di solidarietà nelle migliori tradizioni della cultura cooperativa. Grazie Paolo di avermelo segnalato.

lunedì 6 febbraio 2012

Capitolo inedito 4

20. Rosso di sera (ferraresitudine)

Ogni anno, negli ultimi giorni di luglio, si tiene nella periferia Sud della città una grande festa popolare: un tempo Festa dell’Unità, oggi del Pd. Si chiama “Rosso di sera”. Ci vanno a cenare, giocare a tombola, ascoltare dibattiti migliaia di persone. Ci sono andato anche io per dieci anni, a rispondere alle domande scritte dai cittadini. Non so chi si è inventato la cosa, ma funziona: dall’inizio della festa vengono collocate negli stand alcune scatole di cartone con scritto “Deposita qui la tua domanda per il Sindaco”. L’ultima sera le urne sono aperte da Stefano, un bravo giornalista di “Telestense” che rovescia le schede sul palco davanti al pubblico, le seleziona, unifica i temi, scarta i doppioni e gli insulti e mi fa le domande in diretta. Niente di particolarmente difficile, niente di preparato in anticipo. Solo un gran caldo sotto il tendone e una sorta di litigio quasi rituale tra il pubblico che vuole intervenire e il giornalista che glielo nega.
Metto qui di seguito il testo quasi stenografico dell’ultimo incontro perché ne viene fuori, nel bene e nel male, uno spaccato della mia esperienza amministrativa e soprattutto della mia città: di come si discute con le persone in carne e ossa, lontano dai teleschermi e dalla Politica con la "p maiuscola" ammesso che esista ancora. Mi scuso anticipatamente per il linguaggio un po’ ruvido, ma il parlare in pubblico ha le sue regole di efficacia. E poi, con la mia gente ormai non ho più niente da perdere (e nemmeno da guadagnare).

Giornalista: buonasera a tutti. Grazie di essere qui ancora una volta tanto numerosi: l’ultima con il sindaco in carica. Di domande ce ne sono moltissime, come vedete. Direi di cominciare subito. Se riesco metto insieme i temi, per evitare ripetizioni. Cominciamo con un argomento caldo, in una serata così fresca… (mormorio nell'aria immobile dello spazio dibattiti) l’ospedale di Cona. Riassumo io almeno una decina di schede: a che punto siamo? Quando aprirà i battenti il nuovo ospedale? Era proprio necessario?
Sindaco: era necessario, sì, sono dieci anni che lo dico! Mica si poteva andare avanti con il vecchio ospedale in cui dal pronto soccorso alle sale operatorie ci sono 300 metri di corridoio dove passa di tutto, compreso i resti delle operazioni chirurgiche. Senza aria condizionata nelle stanze, con le barelle nei corridoi e dove non c'è nemmeno un parcheggio né per il personale né per i visitatori. La città merita un ospedale moderno: e quello di Cona è bello e moderno. Andatelo a vedere se non ci credete! Quando aprirà non sono in grado di dirlo, mi dispiace. Ho già fatto la figura dell’ingenuo troppe volte (per non dire di peggio). Chiedetelo alla Regione e alle ditte che ci lavorano. Mi avevano promesso due turni di lavoro giornalieri: mi hanno fatto litigare persino col sindacato edili su questo punto (perché loro preferiscono incassare lo straordinario piuttosto che non fare i doppi turni a rotazione) e poi non hanno mantenuto le promesse. Non sono interlocutori affidabili! Per fortuna ormai non devo più parlarci.

Giornalista: ecco, approfitto. Ci sono un paio di domande che le chiedono se lascerà la città quando smetterà di fare il sindaco e cosa andrà a fare.
Sindaco: perché dovrei lasciare la città? Vivo qui da quando sono nato! Ancora con questa storia… Cosa farò non dipende da me, spero mi arrivi qualche proposta. Altrimenti mi arrangerò da solo o qui o altrove.
Giornalista: c’è una domanda precisa. Dice: “Sindaco, scenderà anche lei in politica”?
Sindaco: Faccio fatica a capire cosa vuol dire, sinceramente… Mi hanno chiamato per amministrare la città e bene o male l’ho fatto per dieci anni. È stato un onore e un privilegio, ma fare l’amministratore è un mestiere diverso dalla politica (che non mi piace molto e non so fare). Se qualcuno ritiene che possa essere ancora utile a qualcosa lo dica, al momento non lo ha detto nessuno. Vuol dire che farò anche io un po’ di cassa integrazione, ce ne sono tanti…
In platea si sente un mormorio. Uno si lascia andare: “E buuum…”.
Sindaco: Non ci crede? Lo hanno scritto anche i giornali che non avrò incarichi, mi pare.
Signore: Appunto, non ci credo.
Sindaco: Infatti, se me lo raccontassero non ci crederei nemmeno io. Comunque lei è libero di pensare quello che vuole. Io spero che mi arrivi una qualche proposta, mi creda. Appena succede l’avverto…

Il signore tenta di replicare ma il giornalista lo blocca: “Le domande le faccio io, per favore niente dialogo, continuiamo”.
Giornalista: qui c’è una domanda che leggo com’è scritta. “Perché non ha fatto per l’azienda Alcoa quello che ha fatto per la Spal?”
Sindaco: Cos’è uno scherzo? Non c’entra niente la vicenda Alcoa con la Spal. Una è una multinazionale che ha deciso di chiudere tutti gli stabilimenti in Italia. Abbiamo passato mesi in attesa di un compratore: mica la poteva comprare il Comune… Dopo molta incertezza sembra finalmente che ci sia un imprenditore che la vuole rilevare, speriamo bene perché quello dei cerchioni di alluminio per auto è un mercato difficile per una piccola azienda locale. La Spal è stata acquistata da un signore che promette di curare anche il settore giovanile. Cosa c’è di male? Se lei vuol sapere perché l’imprenditore che ha acquisito la Spal viene da Lucca le rispondo subito: perché tutti i nostri imprenditori vanno a fare il tifo la domenica in tribuna ma nessuno è disposto a metterci i soldi necessari per tenere su una squadra, né da soli né in cordata.
Giornalista: Vabbè, ma si dice che il Comune non abbia fatto tutto il possibile per tenere il proprietario di prima che era di Comacchio.
Sindaco: Ma in questa città si parla sempre dopo! Quando c’era la possibilità di chiedergli di restare mi hanno spiegato che i tifosi non avrebbero gradito. Ho fatto diverse riunioni con quelli che se ne intendono di calcio (giornalisti compresi) per capire qual' era la strada migliore e mi hanno detto che era meglio cercare un nuovo proprietario e lasciare che l'imprenditore comacchiese se ne andasse. I suoi colleghi… Se poi vogliamo dare la colpa al Comune anche di questo, faccia pure. Appena me ne andrò, la Spal vincerà sicuramente il campionato…

Giornalista: Andiamo avanti. Qui dice: “Abito a San Martino, perché il Psc ha autorizzato l’espansione edificatoria del mio vicino e non la mia?”
Sindaco: Sinceramente non lo so, non conosco il caso specifico. In termini generali debbo dire però, come abbiamo spiegato decine di volte in Circoscrizione a San Martino, che i diritti edificatori non sono diritti universali. Le concessioni sono dentro un perimetro che si è considerato adatto, non è che quel perimetro si possa estendere all’infinito. Capisco che se uno ha un terreno confinante con un’area di espansione ci resti male, ma noi abbiamo il dovere di delimitare le aree su cui si può costruire. Fare dei segni precisi con la matita sulla carta…
Un signore si alza in piedi e chiede la parola. Il giornalista non gliela vuole dare. Quello urla: “Sono quello che ha scritto la domanda!” Io intervengo: “Sentiamo cosa voleva dire, facciamolo parlare”. Gli viene portato un microfono volante. Il signore mi ripete a voce la domanda che aveva scritto. Io gli do la stessa risposta. Lui si arrabbia: “In tanti anni nessuno mi ha mai spiegato perché non posso costruire e il mio vicino sì”. Io replico che non conosco la sua pratica nei particolari ma che non è possibile a chiunque costruire solo perché ha uno spazio, altrimenti il territorio si consuma. Mi accorgo che non solo non l’ho convinto ma che si sta scaldando sempre più. Cerco di chiudere: “Senta, se viene domani con la sua pratica andiamo insieme all’ufficio urbanistica e cerchiamo di capire le ragioni del rifiuto”. Lui dice che c’è andato un sacco di volte e nessuno gli ha mai risposto. Io replico che non è vero: “Le hanno risposto di no. Non è che non le hanno risposto”. Poi il giornalista, per fortuna, riprende in mano la situazione.

Giornalista: Altra domanda, un po’ pepata: “Perché non siete intervenuti in Via Krasnodar dove non si riesce più a vivere in pace? Perché state dalla parte di Don Bedin invece che con i cittadini?” E un’altra analoga: “Al grattacielo è tornata la sicurezza, perché in Via Bologna ci sono le prostitute per strada?”
Sindaco: Sono domande serie. Però mal poste, se posso permettermi. La verità è che Don Bedin fa un’opera meritoria di assistenza a decine di persone senza un tetto e un posto dove mangiare. È vero che a mezzogiorno e la sera molti extracomunitari si radunano davanti alla parrocchia, ma non è vero che rendano il quartiere di Via Krasnodar meno sicuro. Lo dicono i numeri!
Uno tra il pubblico dice ad alta voce: “Lei però abita in centro…” Io replico che Via Krasnodar, da popolare, è diventata negli anni una zona residenziale con molto verde dove si vive bene. Il signore del pubblico cambia tono e dice che proprio per questo motivo bisognerebbe evitare la presenza degli extracomunitari. Io rispondo che se c’è un problema di sicurezza lui ha ragione ma siccome non c’è, non è immaginabile che si impedisca a delle persone indigenti di andare a mangiare e dormire in una parrocchia. Non lo convinco ma il dialogo è pacato.
Sindaco: Quanto a Via Bologna, se resta come è sempre stato, un grande vialone di ingresso in città, ci sarà degrado. Se lo riqualifichiamo, come stiamo facendo con negozi e spazi sociali, il degrado non ci sarà. Mi ricordo che in un dibattito di qualche anno fa una signora arrabbiata mi ha urlato: “Abbiamo capito, lei vuole trasformare Via Bologna in un boulevard alla francese!” Forse pensava di offendermi, invece aveva proprio indovinato: un viale con i marciapiedi, le aiuole con gli alberi, le ciclabili e se sarà un po’ più stretto di prima e con meno parcheggi, pazienza.
Giornalista: e la prostituzione?
Sindaco: mi pareva di avere già risposto. La prostituzione di strada non si elimina mai del tutto: nemmeno con le retate e con gli arresti. Non date retta alla storia dei “sindaci sceriffi” che è solo propaganda… Se si qualifica e si illumina una strada e la si rende più frequentata e meno di passaggio, le prostitute si sposteranno in una zona più periferica. Ma è difficile che spariscano.

Una signora con un camice bianco addosso alza la mano dalla sala. Il giornalista finge di niente ma lei insiste. Da come è vestita sembra sia una cuoca volontaria delle cucine della festa. Alla fine le portano un microfono. La signora ce l’ha con me perché ha letto sul giornale che abbiamo regalato una bicicletta ai dipendenti comunali e pensa che è una vergogna. Cerco di spiegarle che non abbiamo regalato niente. Abbiamo dotato di bicicletta i dipendenti che si sono impegnati a non venire in ufficio in macchina. La signora insiste che sono persone che non fanno niente dalla mattina alla sera e che la bicicletta se la dovrebbero comprare da soli. Provo a ripeterle che non è loro la bicicletta ma del Comune e che la dovranno restituire (come anche io restituirò la mia) perché è uno strumento di lavoro. Lei fa segno che non ci crede: pochissimi in sala ci credono. Io azzardo: “Signora ma lei lavora qui in una cucina?” Lei mi risponde di sì. “E le pentole per cucinare, porta le sue da casa o gliele danno qui alla Festa?” La signora capisce e risponde che non è proprio la stessa cosa perché almeno lei viene per lavorare e gratis, i dipendenti del Comune invece non fanno niente e si fanno pagare. Mi ha incastrato: la bicicletta era un pretesto per parlar male degli impiegati comunali che è un tema di grande successo. Ma la signora è simpatica.

Il giornalista mi guarda perplesso, come dire: hai visto che non ne viene fuori niente di buono a far parlare il pubblico. Io gli sorrido perché la gente deve pur partecipare, in qualche modo… Si ricomincia.
Giornalista: tre domande dello stesso argomento. “Quando partirà la centrale turbogas?”, “Il nuovo forno inceneritore farà diminuire la tariffa sui rifiuti?”, “Quando apre l’asilo dei veleni?”.
Sindaco: Veramente sono tre argomenti tutti diversi uno dall’altro.
Giornalista: Ho fatto per semplificare… si tratta sempre di ambiente.
Sindaco: Capisco, ma così il tema si incasina, voi dovreste aiutare a capire. Allora: la centrale è alla fase dei test, quindi sta per essere avviata, forse in autunno. La sua tabella di marcia prevede dei limiti quantitativi alle emissioni che non possono essere violati. Se crescono le emissioni un giudice fa fermare la centrale, per intenderci. Dai suoi camini usciranno ossidi di azoto sì, ma non sostanze cancerogene, come si dice in giro. Venderà energia elettrica al petrolchimico e alle nuove aziende che volessero insediarsi nell’area. Non è un fattore di crescita occupazionale, come ho letto, ma di sviluppo del territorio. L’energia elettrica può costare meno e questo favorisce i nuovi investimenti.
Giornalista: Le chiedevano di farla più piccola e più lontana…
Sindaco: Più lontana, magari in campagna? Mentre nel petrolchimico ci sono decine di ettari non utilizzati? Non sono d’accordo. Quanto alla grandezza, non è il Comune che decide la dimensione degli investimenti dell’Eni. A Ravenna e a Mantova sono già entrate in funzione centrali identiche alla nostra. Quanto ai rifiuti, anche qui: si dimentica sempre che noi abbiamo chiuso due vecchi forni tradizionali prima di costruire il termovalorizzatore. Perché non calano le tariffe? Perché nel frattempo abbiamo deciso di chiudere le discariche che inquinano più dei forni. E perché la differenziata che vogliamo espandere, costa. Ma io credo che le tariffe debbano calare: sono d’accordo che dobbiamo chiedere a Hera di abbassarle, senza concedergli di bruciare rifiuti importati da altri territori.
Il giornalista mi guarda sornione perché sa che con Hera c’è in piedi da mesi uno scontro duro: “E come pensa di riuscirci?”.
Sindaco: Sostenendo le nostre ragioni, anche davanti a un giudice se necessario…
Giornalista: L’asilo dei veleni?
Sindaco: L’asilo della zona Est è bellissimo, andatelo a vedere. Certo, oggi non lo costruiremmo più in quel luogo, ma non è vero che c’è pericolo per i bambini. Riassumo per chi non avesse seguito la vicenda. Nella zona Est negli anni ’60 c’era una discarica, una vecchia cava di argilla della fornace usata come discarica legale. Lì dentro probabilmente sono stati versati abusivamente dei rifiuti industriali della Solvay. Negli anni le sostanze sono scese nel terreno e ora si trovano concentrazioni elevate di cloruro di vinile monomero dieci metri sotto i palazzi che sono stati costruiti negli anni ’80. Seguendo la falda acquifera le sostanze cancerogene sono arrivate anche sotto l’area dove è stato costruito l’asilo ma c’è un tappo di 6 metri di argilla che impedisce al gas di risalire…
Giornalista: Se non c’è pericolo perché la Usl vi ha vietato di aprirlo?
Sindaco: Non mi nascondo dietro le parole. La Usl dice che non si può escludere che ci sia un margine di rischio futuro. Ma il rischio zero non esiste! Anche in Regione hanno cercato di spiegarlo ai nostri funzionari della Usl: c’è molto più rischio per i bambini che respirano i gas di scappamento negli asili in città che nel nuovo asilo. E poi, mi lasci dire, la Usl non è un ente terzo che si limita a certificare (sulla base dei dati che gli offriamo noi, tra l’altro): è un ente strumentale della Regione al servizio del territorio, deve dire come se ne esce e non alzare la paletta rossa come stanno facendo. Troppo comodo…
Giornalista: E allora?
Sindaco: Allora mi sono stufato di litigare con i funzionari dell’Usl e con il Direttore che non riesce a farli lavorare nel modo giusto e abbiamo chiesto al Consiglio Superiore di Sanità di fornirci un parere formale sulla vicenda. Ho già dichiarato che se il CSS dice che c’è rischio non apriremo, altrimenti sì. Mi spiace solo che l’asilo starà chiuso almeno per un altro anno.
Giornalista: Si dice anche che qualche dirigente della Usl abita di fronte all’asilo e non vuole avere confusione di bambini e mamme davanti a casa…
Sindaco: questo lo ha detto lei…

Un signore alza il braccio e chiede il microfono. Il giornalista glielo concede. Il signore dice: “E con l’aeroporto come siamo messi?” Lo riconosco: è uno con cui ho litigato già un paio di altre feste anni fa, perché non voleva l’allungamento della pista del piccolo aeroporto turistico che sta proprio qui vicino alla festa.
Sindaco: Siamo fermi perché non ci sono più i finanziamenti che erano stati stanziati. Abbiamo perso troppo tempo e il Ministro Bersani li ha usati per l’aeroporto di Genova. È contento che non si farà niente?
Signore: Sì, sono contento, perché l’aeroporto disturba già adesso, figurarsi…
Sindaco: Un aeroporto dove atterrano solo monoelica sportivi dà fastidio? Comunque, guardi, se ci fossero ancora i soldi, i lavori per il prolungamento della pista io li farei. Ma i soldi non ci sono più e quindi può smettere di preoccuparsi. Fine del discorso...
Il signore si siede felice di averla avuta vinta sul sindaco.

Giornalista: torniamo a noi. Qui chiede se dovremo fare ancora dei blocchi della circolazione contro le micropolveri. Perché pare che non servano a molto.
Sindaco: Io penso che sulle micropolveri si debba fare di più e non di meno. Noi, con il blocco dei giovedì, abbiamo fatto di più di molte altre città. Pensi che Roma e Milano vanno in televisione per aver deciso una domenica a piedi all’anno… penoso. Ma non basta. Bisogna anche lavare le strade e ampliare le zone a traffico limitato, non bastano i giorni di chiusura, perché anno dopo anno, va sempre peggio, specie d’inverno. Per sei mesi viviamo in una camera a gas! Certo, una città da sola non può far nulla… specie se è vicina all'autostrada. Ma se si prendessero provvedimenti coordinati fra tutti i Comuni la situazione cambierebbe. È una questione di salute, non di ambiente: ricordo che i provvedimenti sono obbligatori e non facoltativi!
Giornalista: forse le altre città non hanno le micropolveri.
Sindaco: no, la maggioranza dei Comuni italiani è fuorilegge, solo che non fanno le misurazioni…

Giornalista, sorridendo: le rotatorie invece non sono obbligatorie…
Sindaco: le rotatorie sono utili a evitare le code ai semafori e l’inquinamento che ne deriva; a far rallentare le auto sulle grandi circonvallazioni e ridurre gli incidenti. Io questa ironia proprio non la capisco… si fanno in tutta Europa e qui ci dovremmo tenere i semafori agli incroci delle grandi direttrici di traffico?

Un ragazzo in piedi vuole parlare. Il giornalista si spazientisce. Il ragazzo alza la voce. Io chiedo che gli diano un microfono.
Ragazzo: Vorrei sapere cosa fa il Comune per Alcoa…
Stefano si arrabbia e dice che di Alcoa abbiamo già parlato un’ora fa. Il ragazzo si giustifica: “Un’ora fa io ero a casa mia a cena”. Il giornalista dice che adesso si va avanti con le domande scritte e basta. Io ripeto in breve quello che avevo già detto sull’Alcoa all’inizio ma il ragazzo se ne va brontolando che non fanno parlare la gente.

Giornalista: lavoro… e sgambamento cani.
Lo guardo incredulo.
Giornalista: leggo la scheda per intero. “Sono una ragazza che lavora a Bologna. La mia città mi piace molto…”
Sindaco: questo mi fa piacere…
Giornalista: “e vorrei poter lavorare qui. Ma perché non ci sono aree per lo sgambamento dei cani?”
Sindaco: come, non ci sono aree per sgambamento dei cani… ci sono dieci chilometri di sottomura a prato, per non dire dei parchi cittadini e del grande Parco Urbano…
Uno dal pubblico urla: “Che se li tengano in casa i cani!”
Sindaco: no, devono poter sgambare e però non dare fastidio a chi passeggia… adesso ci mettiamo a discriminare i cani che corrono liberamente? Poi magari i bambini perché fanno rumore?
Giornalista: e il lavoro?
Sindaco: noi non abbiamo strumenti per creare posti di lavoro. Cerchiamo di spendere bene i soldi che amministriamo, ma non possiamo compensare noi la crisi… però lasciatemi dire che il lavoro non può essere per tutti sotto casa. E non c’è niente di male ad andare a lavorare a Bologna se si trova un buon lavoro, i nostri nonni andavano in Belgio… si tratta di mezz'ora di treno! ho lavorato a Bologna per qualche anno, ma mica mi sentivo all'estero.
In platea qualcuno mugugna. Uno si alza, dice che è una vergogna che un sindaco dica certe cose. Io lo invito a sedersi e discutere: stiamo solo ragionando insieme... Ma lui se ne va bofonchiando e scuotendo la testa. Io ci resto male.

Giornalista: proviamo ad accelerare?
Sindaco: volentieri.
Giornalista: tre domande tutte sui vigili… perché non si occupano di sicurezza sulle strade invece che fare le multe per divieto di sosta?
Sindaco: questa domanda non manca mai… Si occupano anche di sicurezza, ma se non facessero le multe per divieto di sosta, noi, voi tutti, parcheggeremmo ovunque, anche in piazza del Duomo, come accadeva negli anni 60. Non si può far conto sull’autodisciplina di chi sta al volante. Mi dispiace ma è così.
Giornalista: due domande contraddittorie. Perché i ciclisti fanno quello che vogliono? E l’altra: perché non fate di più per la bicicletta? Due umanità locali contrapposte.
Sindaco: magari fossero due umanità! Sono le stesse persone (anche io) che vanno in bicicletta senza fanale e da autisti inveiscono contro i ciclisti. Lei ha il fanale?
Giornalista: io non vado in bicicletta, e lei?
Sindaco: certo, ho il fanale ma non lo uso mai… e vado sui marciapiedi e contro mano, come tutti. Detto questo, cosa vuol dire fare di più per la bicicletta? Abbiamo 100 chilometri di piste ciclabili! Io penso sia un record nazionale…
Giornalista: quindi lei non farà come a Reggio Emilia, dove hanno consentito alle biciclette di andare in senso vietato?
Sindaco: a Reggio Emilia non hanno 2,6 biciclette per abitante. Io penso, con rispetto per quella città, che abbiano fatto un errore: da noi sarebbe una vera scemenza. E poi contro mano i ferraresi ci vanno già anche se è vietato. Figurarsi se l'autorizziamo...
Giornalista: qui uno chiede perché lei non fa di più contro la zanzara tigre, ma questa gliela condono. Invece: “Perché gli anziani debbono aspettare tanto i servizi dell’Usl?”
Sindaco: quali servizi, così non capisco: abbiamo l’assistenza domiciliare, la telemedicina e persino la telecompagnia…
Giornalista: qui allude ai servizi dentistici.
Sindaco: il nuovo ambulatorio dentistico della Usl è per tutti, non è per anziani, ma anche per loro... Sono poche le città che ne hanno uno così! Me lo lasci dire che ci sono andato, per un'emergenza...
Giornalista: qui dice che ci vorrebbero più cassonetti per il vetro e la plastica.
Sindaco: sono d’accordo. Dovete insistere con Hera perché li mettano.
Un signore del pubblico chiede di parlare: “Perché avete autorizzato un nuovo forno inceneritore?"
Sindaco: si chiama termovalorizzatore.
Signore: lo chiami come vuole, io lo chiamo forno inceneritore...
Io mi innervosisco. È uno che conosco: ha un negozio di giocattoli raffinati in centro. Sono sicuro che se andassi a chiedergli una trottola cercando un giroscopio mi spiegherebbe la differenza che c'è per un'ora. Gli ripeto che ne abbiamo chiusi due e aperto uno più moderno e vincolato. Forse anche lui mezz'ora fa era a cena...
Un signore molto anziano in prima fila mi vede un po' corrucciato e mi urla senza microfono: "Sindaco, ma perché non sei un po’ più contento? Perché non sorridi più spesso quando giri per la strada?"
Io resto spiazzato. Me la cavo con una facezia: “Ha ragione, sarebbe bello lavorare col sorriso sulle labbra, ma proprio non mi viene. Magari la gente direbbe: Ma cos’ha da ridere quello…

Stefano dice che ci sono ancora molte domande cui rispondere. Sono le 23.30 e io sono sudato fradicio. Se chiudiamo qui, prometto di rispondere per iscritto sul sito del Comune a ogni domanda. Lui accetta, rimette tutte le schede rimanenti in una scatola e me la consegna. Mi alzo. Gli amici e i colleghi presenti vengono a salutarmi. È forse il mio ultimo dibattito da sindaco. Il giornalista mi dà un fascio di schede e mi dice: “Tieni, sono complimenti che ti fanno, non potevo leggerle al microfono”. Io le scorro in fretta e dico: “Sono quasi tutte di persone che non vivono in città…” Ridiamo insieme, mentre scendiamo dal palco.