domenica 19 febbraio 2012

Bei ricordi e un pizzico di nostalgia

11. Lux Retia

È stato nell'estate del '99, appena eletto sindaco, che ho perso la testa per Lucrezia. Per un paio d'anni non ho pensato ad altro. E ne porto ancora i segni. Eileen ha sopportato, fin dai primi momenti, mi ha capito e perdonato: perché è stata una infatuazione tutta cerebrale. E per nulla corrisposta.
Lucrezia è irraggiungibile. Appartiene a una famiglia difficile da avvicinare: molto potente e molto pericolosa (specie il fratello). Non l'ho mai vista di persona (se non in alcune rarissime immagini) e soprattutto (ostacolo decisivo) la Lucrezia di cui parlo è morta quasi 500 anni fa. Ma la mia simpatia nei suoi confronti è stata forte, fin dall'inizio: lo ammetto. Tanto forte che nessuno la nomina, in città, se non con molta cautela: come si addice ad una persona "protetta" dal Sindaco. Sto scherzando, come è ovvio, ma non troppo.
La mia è stata una passione indiretta: per seconda persona, si potrebbe dire. Perché la vera forte infatuazione per Lucrezia Borgia l'ha avuta Maria Bellonci e ci ha scritto sopra un libro bellissimo: molto moderno (un romanzo che non è un romanzo). Io l'ho ereditata (per contagio) leggendo quel libro. Perché la Bellonci, tra i suoi personaggi, ha di certo amato più Lucrezia che la cognata Isabella, direi (ma non ne ho prove certe). Troppo intellettuale la Signora di Mantova: troppo personaggio forte, protagonista lucida del suo tempo. Mentre Lucrezia ha dalla sua anche il fatto di essere vittima (fin da adolescente) delle torbide passioni del fratello e del padre, Papa Alessandro: entrambi piuttosto ingombranti come parenti (da non augurarseli). Forse entrambi innamorati di lei: certamente gelosi di lei, fino al punto da ucciderle diversi fidanzati. E anche lei in qualche modo li ha sempre amati.
Lucrezia possiede l'aura della vittima sacrificale, fin da quando la sposano a uno Sforza, dichiarandolo poco dopo impotente: e lei, che un po' lo ha amato, è obbligata ad assecondare giudizi e disegni non suoi e annullare le nozze. Come si fa a resisterle! E poi, a rovescio, è il simbolo (anche se inventato ad arte) del malcostume rinascimentale: della ricerca del potere senza scrupoli. Delle tresche, degli assassinii cruenti e delle trappole astute. Ed è una delle immagini femminili più note della storia. Anche se più deformate. Così quando Eileen ha dovuto spiegare ai cugini di Chicago di quale cavolo di piccola città italiana io ero diventato sindaco (visto che già su dove fosse esattamente l'Italia avevano qualche incertezza) ha tirato fuori Italo Balbo (il trasvolatore), perché a Chicago c'è una Balbo Avenue, Rambaldi (il costruttore di ET) e Lucrezia Borgia. È diventato sindaco della città in cui ha vissuto ed è morta Lucrezia Borgia. E tutti hanno capito: nel senso che hanno trovato un legame anche con le loro vaghe conoscenze della storia (più immaginarie che reali).
E questa presunzione di colpevolezza (senza prove certe, si direbbe) le pesa ancora addosso, povera Lucrezia. Tanto che il "Guardian" ha fatto uscire un articoletto ironico quando si è sparsa la voce che per il 2002 stavamo preparando "l'anno lucreziano": "in Italia il revisionismo deve essere davvero di moda - diceva più o meno il pezzo - se adesso pensano di rivalutare e celebrare anche una avvelenatrice come Lucrezia Borgia". Io ho scritto una mail al giornalista dicendo che non aveva nessuna prova storica per sostenere le sue accuse e che non eravamo noi ad essere antistorici, ma il Guardian. E lui mi ha risposto (da professionista britannico) che si sarebbe documentato e avrebbe volentieri cambiato opinione. Ma debbo spiegare meglio l'origine della fascinazione mia e (dopo qualche fatica) di una parte della città.
Era l'autunno del '99. Leggevo un giorno per diletto il lavoro della Bellonci, e "Galeotto fu il libro", appunto. L'avevo avuto tra le mani da adolescente a casa di mia nonna: che non era un'intellettuale. Forse portato da qualche cugina più grande che abitava dai nonni, non ricordo bene. L'avevo anche sleggiucchiato (alla ricerca di episodi scabrosi che non avevo trovato) e non mi era piaciuto molto. Era un'epoca della vita in cui il mio libro del cuore era "Sinuhe l'egiziano" e mi infervoravo molto alle immagini dell'antica Tebe egizia, dei deserti siriani, dei misteri del labirinto di Cnosso e mi commuovevo al racconto della romantica solitudine di Sinuhe. Quella specie di saggio sul rinascimento, così ben documentato, mi aveva lasciato freddo. Tutto il contrario accadde con la lettura fatta nel '99: malgrado la prima volta fosse l'edizione originale, in grande formato, con illustrazioni e la seconda, invece, solo un tascabile. Non appena assorbito il linguaggio molto moderno (per l'epoca), del "saggio-romanzato" (che sulle prime lascia perplessi) e una volta percepita l'enorme mole di studi e ricerche che c'è dietro quella narrazione documentaristica, il filo della storia non vi abbandona più e dovete andare a tutti i costi fino in fondo ad un pregevolissimo affresco storico nazionale.
Mi sono accorto, nella lettura, che Lucrezia, abbandonata Roma i primi di gennaio per andare in sposa al figlio del Duca Ercole, Alfonso d'Este, è entrata nella mia città, al seguito di un corteo di centinaia di persone e decine di mule e carrette cariche della sua dote molto ricca, il 2 febbraio 1502, salendo (guarda caso) proprio lo scalone di marmo che oggi si sale per entrare in Municipio. In quei mesi io avevo appena (per tutt'altro motivo) lasciato Roma per tornare a fare il sindaco in mezzo alle nebbie e già mi mancavano i tramonti romani, i pini marittimi di Villa Borghese che vedevo dalle finestre dell'ufficio e gli aerei che volano bassi e luminosi nel cielo azzurro scuro della sera. E così mi immaginavo le nostalgie della povera Lucrezia, arrivata in mezzo al freddo e all'umido e alle invidie e alle abitudini di una corte di provincia. Così era scattata una specie di strana solidarietà dell'esule. Ma poi, a leggere della data del 1502 il primo pensiero che mi è venuto è che avremmo potuto (anzi dovuto) celebrare i 500 anni di quel viaggio e quell'arrivo proprio il 2 febbraio del 2002 (data che, non sarebbe sfuggito ai cabalisti rinascimentali di corte, si potrebbe scrivere più semplicemente: 02.02.02).
Quando è arrivata per sposare Alfonso, Lucrezia aveva solo 23 anni e già si portava dietro la fama sinistra di essere "moglie, sorella e madre" del fratello Cesare (detto il Valentino non per meriti estetici). Nessuno sa quanto fossero stati torbidi i rapporti con il padre Rodrigo (prima e dopo che diventasse Papa), ma certo gli episodi narrati dai cronisti dell'epoca (come il ballo delle prostitute organizzato in Vaticano o la monta delle giumente cui il padre fa assistere la giovane figlia) non sono propriamente cose da educande., per quanto oggi si direbbe "serate eleganti". Ma Lucrezia quando giunge in città da noi viene descritta in maniera molto diversa di quanto non faccia poi l'iconografia successiva (fino a Hugo e Donizzetti).
Non è una bellezza prorompente (dicono i cronisti della corte estense), è graziosa ma minutina: ha bei capelli lunghi e biondi (come la "Caterina d'Alessandria" del Pinturicchio che pare abbia voluto ritrarre proprio Lucrezia nell'affresco degli appartamenti Borgia in Vaticano) e occhi chiari (forze azzurri: perché la dizione precisa dei cronisti è "occhi bianchi", come ancora oggi si dice in campagna da noi per dire "azzurri"). Ma è bastato che la prima sera Lucrezia ballasse una "moresca" nell'intervallo di una commedia di Plauto rimessa in scena (in volgare) per l'occasione delle nozze, per lasciar tutti stupefatti e ammirati. Tanto ammirati che la cognata Isabella, duchessa di Mantova, che soffriva di gelosia (non immotivata) pagò per molti mesi un tizio che stava a corte solo per poter descrivere le acconciature, i gioielli e soprattutto gli abiti che indossava ogni giorno Lucrezia e inviare dispacci a Mantova.
Insomma: 23 anni, due mariti e altrettanti figli alle spalle (più un giovane fidanzato ammazzato da Cesare mentre cercava di nascondersi tra le braccia del Papa: "che ne ebbe molto insanguinata la veste"), un folto seguito di spagnoli che introducono musiche e balli nuovi in una corte piuttosto austera: molti soldi e molti gioielli portati in dote a un suocero piuttosto attaccato al denaro. E pettegolezzi che continuano, anche negli anni successivi. Quel che è certo è che Lucrezia non lascerà mai più suo marito e la nostra città dove sarà sepolta (vestita da terziaria francescana) a 38 anni d'età dopo l'ottava gravidanza che le aveva "tolto le forze" e forse prodotto la terribile "febbre puerperale" che la fece morire.
In breve. Dopo il libro della Bellonci mi sono messo a studiare il tema (credo di aver letto tutto il leggibile antico e moderno sull'argomento). E poi a progettare un anno di iniziative da dedicare a Lucrezia: il 2002 appunto. E attorno a quest'idea coinvolgere le tante associazioni culturali della città.
L'intenzione di decretare una sorta di "anno speciale" mi era venuta anche per tentare di indirizzare le attività culturali e le iniziative che si svolgono in città in maniera un po' meno casuale e avviare una programmazione più ordinata di quanto non accadesse di solito. Mi spiego meglio: ci sono centinaia di associazioni private che promuovono ogni anno eventi della più svariata natura (dal libro sulla salamina da sugo, un tipico insaccato locale, al palio "più antico del mondo", alla pubblicazione delle opere dell'umanista Jano Pannonio, a centinaia di altre attività tutte meritorie) e che su queste iniziative chiedono un contributo al Comune (e uno alla Provincia e uno alla Cassa di Risparmio locale). Per il 2002 si poteva provare a indirizzare quegli sforzi a un tema più preciso e attinente alla storia aurea della città: Lucrezia, appunto. Non un tema obbligatorio, ma un soggetto buono per tutti i gusti. E finanziare chi ci stava. Non è stato facile presentare l'idea e farsi capire. E soprattutto farsi seguire. Perché i miei concittadini sono volonterosi ma freddi: di difficile entusiasmo. E le associazioni culturali sonno fatte così: se l'idea ce l'hanno loro è cultura con la "C" maiuscola, altrimenti è un'idea piena di difetti. Ma io mi ero preparato con cura e, a forza di presentazioni pubbliche e riunioni di lavoro (e una conferenza stampa fatta anche a Roma), sono riuscito a convincere il mio assessore alla cultura prima, la giunta poi e alla fine (posso davvero dirlo) gran parte della città. Una delle cose che, ancora oggi, mi danno molta soddisfazione e che non si è ripetuta tanto facilmente.
All'inizio i diffidenti e le malelingue (una città di provincia come la mia è piena di mancati premi Nobel che passano il tempo a criticare le idee altrui) avevano fatto circolare la voce che la proposta non fosse mia ma di mia moglie. Una calunnia subdola perché nello stesso tempo voleva dire: l'idea non è sua, l'ha copiata; forse non ci crede nemmeno lui, la porta avanti per non litigare in casa; basta fingere di niente e l'idea cadrà da sola. Ma io ho continuato a spiegarla in giro con tutto l'entusiasmo che riuscivo a trasmettere e alla fine la cosa è passata. Un po’ li capisco i denigratori: non erano abituati ad avere sindaci con idee proprie in campo culturale, per cui diffidavano. E poi, la mia città è un grande paese: se uno ha un’idea, prima la si critica e si cerca di sabotarla, poi magari ci si lamenta che si è fermata e la si rimpiange. Alla fine siamo riusciti ad avere circa 70 iniziative in 12 mesi, con la collaborazione di decine di associazioni e di privati. E in quell'anno magico (ho chiesto una verifica precisa all'anagrafe), in città sono nate molte bambine di nome Lucrezia. Impossibile ricordare tutto quello che abbiamo fatto. Ma restano impressi nella mia memoria alcuni episodi che ancora oggi mi commuovono, quando ci penso. Il primo è stato la notte del 31 dicembre 2001. Si apriva l'anno di Lucrezia e tra le feste e i fuochi d'artificio fatti nella piazza del Castello Estense (in una delle cui torri Lucrezia ha abitato) abbiamo pensato ad una coreografia particolare. Improvvisamente tra le cascate di luci e di fuochi che cadevano dalle torri è apparsa una Lucrezia in carne ed ossa che dall'alto delle balconate di marmo ha lanciato petali di fiori sulla gente. Al suono di una "folia" quattrocentesca (tratta da un cd di Jordi Savall) che avevo scelto e imposto agli organizzatori della festa. Intanto si incendiava un pannello con la scritta "Lucrezia, 02.02.02". È stato un momento toccante: sicuramente per me. Ma molti se lo ricordano come l'inizio di un anno pieno di sorprese. E di gadget lucreziani: dalla copia della medaglia storica di lei con suo marito il Duca Alfonso che abbiamo coniato per l'occasione, alle calamite con l'unica immagine vera di Lucrezia da attaccare al frigorifero, ai tanti libri usciti per l'occasione. Su tutto mi ha aiutato con entusiasmo Sergio, l'assessore al turismo di allora. Senza di lui mi sarei sentito più solo.
Uno dei libri che mi è più caro non è uscito in tempo. Ma proprio in quell'anno l'editrice Archinto ha deciso di ripubblicarlo (perché era ormai introvabile). Si tratta della raccolta delle lettere tra Lucrezia e Pietro Bembo, il maggior poeta nazionale dell'epoca, dal titolo : "La grande fiamma". Perché fra i due c'è stata una breve (non sappiamo quanto consumata) storia d'amore e (fatto ancor più commovente per l'epoca) una lunghissima amicizia documentata dalle tante lettere in cui Lucrezia, per non destar sospetti, si faceva chiamare FF (senza farci capire il perché di quelle iniziali): "Questo da qui avante serrà el mio nome: FF". Pietro Bembo dedicherà a Lucrezia il primo volume del suo libro più famoso. Lucrezia gli scriverà delle semplici lettere, a volte in spagnolo (castigliano), a volte in volgare, a volte in latino: sempre con grande eleganza e trasporto.
Tra i due scoppiò davvero una grande sintonia, se stiamo alle frasi che si scambiavano. Ma non deve far meraviglia perché l'immagine di Lucrezia avvelenatrice che abbiano noi è più tarda. E poi perché, come dicono i cronisti dell'epoca, la giovane Duchessa intratteneva alla sua "piccola" corte molti intellettuali e artisti e musicisti di allora, come usava nelle corti più illuminate. Tra gli altri, a riceverla alla sommità dello Scalone di marmo del Benvenuti quel giorno di febbraio c'era (un tal) Ludovico Ariosto che le dedicherà una (per noi lunga e noiosa) elegia di nozze e poi descriverà Lucrezia nell'Orlando come una statua che orna un immaginario tempietto di marmo. E poi il madrigalista Tromboncino e l'umanista Ercole Strozzi (figlio di Tito, uno dei savi di corte, irretito anche lui dal fascino della Duchessa fino a trasformarne il nome nel latino “Lux Retia”). Fu così lunga e solida l'amicizia con il Bembo che noi oggi ancora possediamo (alla biblioteca Ambrosiana di Milano) un pacchetto di lettere originali di Lucrezia che il poeta conservò assieme a un ricciolo dei capelli di lei. Biondissimo anche dopo cinque secoli, non c'è bisogno di dirlo. Ed è ovvio che (con la benevolenza dell'Ambrosiana ) siamo riusciti a esporre quel ricciolo nella mostra che a fine anno abbiamo dedicato a Lucrezia (costruita dallo scenografo Pizzi), tra ritratti presunti (molti) e veri (pochissimi): soprattutto una piastra d'argento dove Lucrezia è ritratta in compagnia del figlio Ercole e la medaglia coniata per le nozze con Alfonso. In entrambi i ritratti Lucrezia più che con le sembianze di un'ammaliatrice appare una donna piccolina e "paffutella". E questo ce la rende più umana. Ma il ricciolo biondo ha costituito la vera attrazione (un po' necrofila) e la vera emozione della mostra.
In quei mesi l'eco dell'anno lucreziano si è molto diffuso. E ha ingenerato molte curiosità e aspettative. Alcune discutibili. Come l'idea di un "famoso" paleo-anatomopatologo dell'Università di Pisa che si è proposto per la riesumazione del cadavere della povera Lucrezia. Io la notizia l'ho appresa da un giornale locale che aveva intervistato il professore e dava per avviato l'iter di richiesta dell'autopsia. Nel frattempo mi è arrivato il curriculum del professore (le altre riesumazioni di personaggi famosi fatte nella sua carriera) e le motivazioni della sua richiesta.
Non discuto sulla serietà scientifica dell'iniziativa. Ma a me si sono intorcinate le budella alla sola idea che il mio omaggio a Lucrezia finisse in una necroscopia. E mi sono opposto. Ho rilasciato una dichiarazione in cui dicevo apertamente che se avessi dovuto firmare io l'autorizzazione non l'avrei fatto. In effetti non era affatto chiaro chi dovesse autorizzare la cosa. Perché Lucrezia è sepolta nel convento di clausura del Corpus Domini. Quindi in uno spazio assogettato anche al diritto ecclesiastico. Ma non mi interessava approfondire: mi bastava far sapere alla Curia che non ero d'accordo. E all'anatomopatologo che, con me sindaco, quella riesumazione non si sarebbe fatta. E la scienza avrebbe atteso tempi migliori. Anche perché, che la povera Lucrezia fosse morta di parto lo si sapeva già. E il resto era più curiosità che ricerca scientifica. Sta di fatto che la cosa si bloccò e la mia coscienza nei confronti di lei fu tranquilla. Nessun oltraggio da parte dei suoi sudditi e della sua "nuova famiglia". Ma un po' di curiosità morbosa è inevitabile su Lucrezia: è in sintonia con lo spirito dei tempi, suoi e nostri. Basti pensare che la povera si è beccata (nella nostra città) almeno due volte la peste (o quello che i cronisti di allora chiamavano peste) e che il suo amico e confidente Ercole Strozzi ci ha lasciato la pelle ("la notte tra il 5 e il 6 giugno 1508" come si legge nella lapide attaccata a all’angolo di casa Romei) per essere troppo entrato nelle confidenze della Duchessa e aver fatto spesso da latore di messaggi di Lucrezia ai suoi amici (forse troppo spesso dal punto di vista del Duca Alfonso che era un tipo strano, ma anche lui certamente un "uomo d'onore").
Altro episodio che ha coinvolto tutta la città è stata la rievocazione storica del corteo. L'abbiamo chiesto alle contrade che organizzano il Palio cittadino e che hanno circa un migliaio di figuranti in costosi costumi alla foggia della fine del' 400 ripresi dagli affreschi di Palazzo Schifanoia. Erano preoccupati gli organizzatori (perché sono dei perfezionisti) di non avere i costumi giusti per la moda dell'inizio del '500, ma li ho tranquillizzati che non se ne sarebbe accorto nessuno. E loro hanno organizzato uno spettacolo magnifico con cavalli, buoi, fiaccole, alabardieri e tutto il seguito in una magnifica serata di giugno. La parte di Lucrezia la faceva una bella ragazza bionda che montava un magnifico cavallo morello. Una variante rispetto alla storia vera, dato che Lucrezia cade da cavallo durante il corteo e le viene fatta montare una mula bianca, ma noi di mule bianche non ne abbiamo trovate e quindi l'abbiamo lasciata sul suo bel cavallo. Io sono riuscito a vedere qua e là il corteo per le vie della città ma poi sono andato ad attenderne l'arrivo in Piazza del Duomo dal balcone del vecchio palazzo ducale. Lo spettacolo era davvero imponente tra le corazze, le trombe chiarine, i tamburi e tutti i figuranti in costume. E migliaia di persone che assistevano. Ma il momento in cui mi sono commosso è stato un altro: e anche adesso sento un po' di brividi, ricordandolo. Perché a un certo punto la regia della manifestazione aveva previsto che il corteo si arrestasse e Lucrezia entrasse a cavallo nella piazza a fianco della cattedrale (accompagnata solo dal palafreniere). E infatti lei è entrata, con un costume giallo dorato che copriva l'intera groppa del cavallo e ha iniziato a guardarsi intorno, come forse avrà fatto davvero la futura Duchessa, come per cercare di capire dove era giunta. Quel che sicuramente all'epoca non c'era era la sua voce fuori campo che per qualche minuto ha sovrastato il chiasso del corteo e delle fanfare. Mentre girava in tondo sul cavallo nervoso Lucrezia guardava i palazzi, il campanile della cattedrale e rifletteva fra sé, pensando con nostalgia alla sua città e alla sua famiglia. Aveva appena conosciuto il futuro marito e il futuro suocero e quindi doveva essere davvero spaesata la povera Lucrezia quella sera del febbraio 1502 (magari c'era pure la nebbia: chi sa...). Anche perché nella sua Roma non sarebbe mai più tornata. Fatto sta che alla frase : "Ho lasciato la corte romana, sono giunta in una città che non conosco e in una famiglia che non conosco... chi sa se fra qualche secolo si ricorderanno ancora di me", mi è salito un groppo alla gola che ancora sento. Ed è stato meglio così, per evitare che mi di mettessi a urlare: "Ma certo Lucrezia che ti ricorderemo, non vedi quanta gente è venuta qui questa sera per salutarti?" Poi mi sono ricomposto e con tanto di fascia l'ho accolta alla sommità dello Scalone, alle spalle di Alfonso e del Duca seduti su uno scranno e degli altri dignitari della corte estense. Dopo aver salutato la sua nuova famiglia Lucrezia mi si è parata davanti e mi ha sorriso, io ho ricambiato e le ho offerto una rosa in segno di benvenuto ufficiale (e di amicizia personale). In piazza la musica e gli applausi coprivano le emozioni. Inutile dire che la piazza dell'antico Palazzo ducale era pienissima di gente e che quando lo speaker ha annunciato che stava salendo "Madonna Lucrezia Este de Borgia" è scattato un applauso come se fosse stata, che so, madre Teresa di Calcutta.
Il paragone non sembri sacrilego. Quando mi è venuta l'idea dell'anno lucreziano, prima di renderlo ufficiale, sono andato a chiedere al vescovo (che abita in Curia, dall'altra parte della strada dove c'è il palazzo comunale) cosa ne pensasse: era pur sempre la figlia di un Papa quella che stavamo per celebrare. E lui per fortuna mi ha risposto (anche lui come se stessimo parlando di una persona presente fra noi: "A Roma era molto chiacchierata, ma qui in città è stata una brava madre e una brava moglie". Quasi una benedizione, insomma.
A qualche concittadino illustre (con un po' di puzza sotto il naso) non sono piaciute molto queste scenografie. E sono stato anche criticato per la presunzione di aver indicato alla città un tema cui tutti dovevano "uniformarsi". Ma non era così! Abbiamo continuato a finanziare le varie iniziative culturali come prima. Chi stava nel programma lucreziano aveva qualche vantaggio economico e di immagine, questo sì. Erano incentivi, non divieti.
E poi era una bella occasione di studio. Perché oggi, abbiamo un'idea delle corti rinascimentali molto distorta: dato che le guardiamo attraverso ciò che ci è rimasto di visibile: l'eleganza dei palazzi, la raffinatezza degli affreschi, i quadri famosi e tante volte copiati, le miniature sontuose, gli oggetti preziosi. Ma le corti rinascimentali erano piene di spettacoli e di scenografie improvvisate dagli artigiani di corte che forse ci apparirebbero pacchiane. Erano piene di effimero. E l'effimero di corte, ad arbitrio del Duca, inondava le strade e le piazze. Il rinascimento (come si vede nell'ultimo film di Vancini sulla congiura che qualche anno dopo insaguinerà la corte Estense, ordita e fallita proprio contro Alfonso, il marito di Lucrezia, dai suoi stessi fratelli, a causa proprio di una dama spagnola del seguito di Lucrezia) è pieno di contrasti per noi inaccettabili. Il film è importante perché non è cultura diffusa. E la distanza tra lo sfarzo della corte e la cronica miseria di tutto ciò che c'era subito fuori dalle mura del Palazzo ducale e delle splendide ville di campagna (le Delizie) era davvero incolmabile e stridente. Anche per questa idea di ricostruire (e lasciare) qualcosa, abbiamo chiesto a Vancini di girare un documentario storico sulla vicenda. Lui ha accettato con gioia e abbiamo deciso di mettere in scena un testo della Bellonci che faceva parte di una serie di trasmissioni radio intitolata "Interviste impossibili". In questa proprio la Bellonci intervista il suo personaggio preferito e la fa riflettere (alla fine della sua vita) sulla sua famiglia, i suoi amori, le sue vicende. Vancini ha potuto usare i costumi dell'epoca (quelli del Palio) e gli spazi di una casa del '400 in cui davvero Lucrezia era stata più volte (in ritiro spirituale). Ne è venuto fuori un cortometraggio interpretato da Caterina Vertova davvero emozionante. Per i testi e l'ambientazione. C'è anche una cassetta che continua a essere venduta. Ma non sono riuscito (malgrado gli auspici e gli sforzi della Fondazione Bellonci) a proiettarlo a Roma, come pensavo giusto fare. Ingenuamente: perché volevo coinvolgere il sindaco di Roma in quella che mi pareva una simpatica idea di "gemellaggio storico" fra le due città. E lui non mi ha nemmeno risposto: segno che la cosa non lo interessava per niente. O meglio, mi ha fatto rispondere da un assessore e da un dirigente dell'assessorato alla cultura. Ma anche io conosco queste tecniche di depistaggio (anche se non le uso) e ho capito che la cosa sarebbe sfumata. Infatti, dopo qualche telefonata di cortesia, non se ne è fatto più nulla. Come ho avuto modo di notare (direttamente) quando una cosa lo interessa davvero, il sindaco di Roma, chiama addirittura lui, di persona. Gli intermediari sono sempre fasulli.
Prima ho segnalato che Lucrezia scriveva in castigliano, pur essendo di origine catalana. Non sembri una mia pignoleria. Ho un episodio buffo e paradossale da raccontare a questo riguardo. Accaduto a Valencia proprio in quei mesi. Quando sono stato invitato ad una mostra sulla famiglia Borgia, assieme a tutte le città che avevano avuto a che fare con loro. L'iniziativa era molto seria, patrocinata o comunque fatta in collaborazione tra gli Archivi vaticani, la Municipalità di Valencia e altre fondazioni locali. I materiali prodotti ben costruiti e ponderosi. Ma il finale è stato, per noi italiani, assurdo e segno del crescente disordine istituzionale (europeo se non mondiale). Dove si forzano le identità culturali a norme tanto rigide quanto assurde. In breve. Alla cena ufficiale, davanti a un migliaio di persone, mi informano che avrebbero gradito un mio breve intervento sul tema dei Borgia. Io mi metto d'impegno e butto giù alcune righe in cui racconto dell'arrivo di Lucrezia in città. Lo faccio nel mio imparaticcio (ma comprensibile) castigliano. Poi approfitto di un sacerdote che c'era a tavola con me e Eileen e gli chiedo se mi corregge quelle due paginette. Lui è molto gentile e mi sostituisce gli italianismi più grossolani. Probabilmente il nostro confabulare e scrivere viene notato perché a un certo punto si avvicina uno dell'organizzazione e mi dice: "Naturalmente, Signor Sindaco, Lei potrà intervenire in Italiano". "La ringrazio, dico io, ma pensavo di dire due cose in spagnolo...". Lui non replica nulla e se ne va. Dopo un po' sento che gli oratori che intervengono a portare i loro saluti parlano tutti in catalano. Anche il sindaco di Alghero, che (in dialetto) parla un catalano che tutti capiscono e apprezzano molto. Torna l'organizzatore e mi dice: " Abbiamo pensato che sia preferibile che Lei intervenga in Italiano, visto che non è in grado di parlare catalano". Io comincio a capire qual'è il problema e a innervosirmi. Gli rispondo che se vogliono che parli lo avrei fatto in castigliano, altrimenti sarei stato zitto. Sapendo che sarebbe stata una scortesia inaccettabile non far parlare un ospite: anche nel loro delirio nazional-linguistico. Lui fa buon viso... ma persino mentre mi fa salire sul palco mi sussurra: "se parlerà in italiano a un pubblico spagnolo attirerà di più la nostra attenzione...". E io gli rispondo: "Lasci che ci pensi io all'attenzione...". E così è andata. Ho letto il saluto in castigliano e non mi è mancata l'attenzione della sala: forse più per il dispetto che per l'interesse. Poi mi hanno spiegato alcuni spagnoli non valenziani presenti, che c'era addirittura una componente ideologico politica sotto quella storia. Perché il Governo regionale è di destra e difende la lingua spagnola, mentre la città è di sinistra e difende il catalano. O il contrario: adesso non ricordo più bene la folle geografia politica di quella serata. Ma nemmeno penso meriti di essere ricordata. Ognuno ha i suoi limiti: e i suoi retaggi. E un paese come la Spagna che ci ha superato in tantissimi campi si perde (per nostra fortuna) ancora in simili sciocchezze. Se questo è il federalismo alla catalana, meglio lasciar perdere. Quando l'ho raccontato al mio amico Joaquim Gonzalez, che è catalano, ha commentato: "Non capiscono che si stanno facendo del male da soli".
L'anno delle celebrazioni lucreziane ho conosciuto anche Luca Ronconi e Mariangela Melato. Non per caso. Avevo pensato che sarebbe stato bello rifare per l'occasione l'Orlando di Ronconi degli anni 70. Uno spettacolo teatrale fatto in piazza: una tappa della storia del teatro contemporaneo. Indimenticabile per chi lo vide allora. Io ci andai tre sere di seguito: in Piazza Municipale. Perché pubblico e attori erano tanto mescolati che, per vederlo tutto, bisognava spostarsi per seguire tutti i gruppi che recitavano e lasciar spazio agli enormi cavalli di legno con cui si muovevano i paladini. Eileen l'aveva visto alle vecchie "Halles", quando faceva il liceo a Parigi, beata lei. Insomma, sono andato a Firenze a parlare con Ronconi e chiedergli (ingenuamente) se non aveva voglia di rifarlo. Ma lui mi ha risposto subito di no: con cortesia e franchezza. No, perché l'aveva già fatto. E non si sentiva di rifare una cosa già fatta. Io ho capito che un regista teatrale non è, come pensavo io, naturalmente propenso alla replica. Anzi. E Ronconi meno degli altri. Un po' deluso gli ho spiegato la nostra idea di Lucrezia e che mi sarebbe piaciuto che lui facesse comunque qualcosa. Mi ha detto che ci avrebbe pensato e ci siamo salutati. Dopo qualche mese mi arrivò la sua proposta: mettere in scena uno spettacolo di Gian Battista Andreini che si chiama "Amor nello specchio". Un testo dei primi del '600 che però ben poteva rappresentare il teatro di corte (seppure un secolo dopo Lucrezia). Abbiamo fatto diversi sopraluoghi in città e poi, alla fine, Ronconi ha scelto ("se il Comune è disponibile") l'incrocio tra Via Ercole d'Este e Via Biagio Rossetti: dove ci sono il Palazzo dei Diamanti e Palazzo di Bagno da una parte e Palazzo Prosperi Sacrati e Palazzo Bevilacqua dall'altro. Insomma (come si sarà capito) il centro dell'addizione rinascimentale della città, il luogo simbolo del rinnovamento urbanistico voluto dagli estensi. La città medioevale terminava a Nord con il Castello e l'espansione verso Nord voluta da Ercole divenne, secondo Bruno Zevi "la prima città moderna d'Europa".
Ronconi decise di porre a terra 1000 metri quadrati di specchi (su cui gli attori scivolarono non poche volte e anche Mariangela Melato che faceva la protagonista si produsse una storta) e creò una scenografia spettacolare in cui i quattro palazzi storici si specchiavano al suolo (e tutto era doppio, come nella storia) e la vista degli spettatori, seduti in una tribuna costruita per l'occasione sulla strada, correva all'infinito, oltre l'incrocio, fino alla linea lontana delle antiche mura. Lo spettacolo fu bellissimo e un giornale nazionale scrisse che la nostra città, per una settimana era stata, grazie a Ronconi "il Rinascimento italiano", senza altri aggettivi. Anche perché Ronconi, alla richiesta di altre città di replicare l'Amor nello specchio anche in altri centri storici ha risposto: "Non si può, non ci sono i palazzi adatti". Non so, sinceramente, quanti tra i miei concittadini si siano accorti di questo privilegio. Sia Luca Ronconi che Mariangela Melato e la compagnia di giovani che era con loro si sono dimostrati anche molto simpatici e alla mano. Tant'è che dopo l'ultima recita li abbiamo invitati tutti alla festa dell'Unità della Rivana dove abbiamo passato una serata indimenticabile a sentire Mariangela che ci rifaceva pezzi del suo repertorio comico a richiesta: tra cui il famoso film della Vertmuller di recente reinterpretato (molto male) da Madonna. Con loro si è costruito un bel rapporto per cui ogni tanto ci incontriamo in qualche teatro italiano a vedere uno dei loro spettacoli. E ci ripromettiamo di lavorare ancora insieme.
Come dicevo, le iniziative dell'anno lucreziano sono state tante. Alcune anche di approfondimento storico dell'epoca e dei personaggi principali. Come quel professore che ci raccontava che nell'archivio di Ercole d'Este custodito a Modena c'erano lettere e carte da cui si capiva che il Duca era rimasto completamente affascinato dalle scoperte geografiche di quegli anni. E in una lettera si faceva riferimento esplicito al viaggio importante di un certo Colombo che aveva trovato terre nuove di là dal grande mare. E il Duca (in cambio di non pochi fiorini) chiedeva di essere tenuto informato.
​Ercole d'Este era talmente preso da quello che stava succedendo nel mondo (il primo passo verso la globalizzazione, diremmo noi) che si era immaginato una cosa fantastica: ancora a metà tra la scenografia, gli apparati di corte e l'architettura. Aveva ordinato due colonne da porre al centro della "piazza nuova" (la piazza della città nuova) su cui voleva porre una sua statua equestre. Niente di particolare, se non che, giocando sul suo nome, quelle sarebbero state le colonne d'Ercole e la nuova città si sarebbe spinta "al di là delle colonne d'Ercole", come le scoperte geografiche di quegli anni. Se pensiamo che oggi ancora quancuno dubita dello sbarco sulla luna, dobbiamo apprezzare ancora di più la lucidità con cui quegli uomini vivevano il loro tempo.

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